Al funerale della Arkàdina ci sono pure Al Bano e Romina

Un momento di «Io non sono un gabbiano» ( le foto che illustrano l'articolo sono di Angelo Maggio)

Un momento di «Io non sono un gabbiano» ( le foto che illustrano l’articolo sono di Angelo Maggio)

CASTROVILLARI – L’anno scorso, dopo aver visto il «Vania» della compagnia milanese Òyes, scrissi che quello spettacolo, caratterizzato da una radicalizzazione estrema, costituiva sicuramente, fra le tante «attualizzazioni» di Cechov che mi era capitato di vedere in precedenza, una delle più fondate e trascinanti. E adesso scrivo che con «Io non sono un gabbiano» – l’allestimento presentato nell’ambito della XVIII edizione della rassegna «Primavera dei Teatri» – Òyes è andata ancora oltre. Ma prima di procedere con l’analisi di questa sua nuova creazione, mi sembra utile riproporre il riassunto della situazione che appunto ne «Il gabbiano» si accampa.
Irina Arkàdina, contro l’età che avanza, s’aggrappa alla superficie del proprio status di diva del teatro «ufficiale»; lo scrittore Trigòrin, suo amante, si crogiola nel successo tra noia, ipocrisia e narcisismo; Sòrin, fratello di Irina, rimpiange continuamente la vita che gli hanno negato i ventotto anni trascorsi da consigliere di stato; Dorn avrebbe volentieri barattato la carriera di medico e di donnaiolo con il soffio creativo degli artisti; Mascia, rinunciando all’amore per Konstantín Trepliòv, figlio dell’Arkàdina, s’acconcia a sposare il grigio maestro Medvèdenko; Nina Zarècnaja, che sognava di diventare una grande attrice, a sua volta rinuncia all’amore di Trepliòv, si mette con Trigòrin e, da lui abbandonata, si riduce a recitare in provincia per dei volgari mercanti; e Trepliòv, che sognava di diventare anche lui uno scrittore affermato, si uccide addirittura. Come aveva promesso di fare dopo aver abbattuto col fucile il gabbiano del titolo, simbolo dichiarato dell’utopia del volo – ossia dell’impossibile riscatto da quella vita larvale – in vario modo coltivata da tutti gli «antieroi» citati.
In breve, questi personaggi, come tutti gli altri di Cechov, si trascinano in un limbo schiacciato fra il rimpianto del passato e il sogno confuso di un futuro in cui, peraltro, fondamentalmente non credono: dunque, li connota, come impareggiabilmente ha osservato Szondi, soprattutto «la rinuncia al presente e alla possibilità d’incontrarsi; la rinuncia alla felicità in un vero incontro». Ed è a una simile rinuncia che – giusto nel solco di una radicalizzazione estrema – rimanda «Io non sono un gabbiano».

Un'altra scena di «Io non sono un gabbiano», presentato nell'ambito di «Primavera dei Teatri»

Un’altra scena di «Io non sono un gabbiano», presentato nell’ambito di «Primavera dei Teatri»

Se in «Vania» Stefano Cordella, il drammaturgo e regista di Òyes, equiparava il limbo di cui sopra a uno stato di malattia, appendendo tutte le lampadine che illuminavano i punti-chiave della scena ad aste portaflebo, qui lo equipara puramente e semplicemente a uno stato di morte. Infatti, lo spettacolo inizia con il funerale dell’Arkàdina, orchestrato dal resto dei personaggi con in testa il Medvèdenko che si assume il compito di pronunciare l’orazione in ricordo della scomparsa. Ed è inutile dire quanto verbosa e ineffettuale sia quell’orazione, che addirittura tira in ballo i latini, Jerome Klapka Jerome, Swift e Oscar Wilde e che il maestro interrompe solo per invitare Mascia a cantare la famosa «Casa bianca» di Marisa Sannia: la casa che i bimbi «non vorrebbero lasciare» perché «è la loro gioventù che mai più ritornerà».
Ma, ripeto, non è morta solo l’Arkàdina, sono morti tutti. Lo dichiara esplicitamente Medvèdenko, sia pure parlando dei suoi allievi: «non sanno di essere morti». E lo ribadisce il colloquio, insieme tragico e comico, fra Dorn e Sòrin: a quest’ultimo, che chiede: «Mi dite perché mi guardate così?», il medico risponde: «Sòrin, sei morto. Già da un anno. Non sapevamo come dirtelo…». Mentre la confessione di Trigòrin («Io sono solo parole») mi fa tornare in mente quanto constatò Hofmannsthal nella lettera spedita il 18 giugno 1895 al guardiamarina E. K.: «Le parole non sono di questo mondo, sono un mondo a sé del tutto indipendente, come il mondo dei suoni».
Appunto, i personaggi di questa «rivisitazione» de «Il gabbiano» vivono in un altro mondo. E a sottolineare icasticamente tale loro «diversità» arriva una delle scene più intelligenti e forti e pregnanti che abbia mai visto a teatro: quella in cui un Trepliòv completamente nudo (poiché fragile indifeso) bacia in bocca una Nina in abito lungo completamente bianco (poiché questo è, per l’appunto, il colore della morte).
Il tutto, infine, si esalta nella scena conclusiva: quando, dopo essersi sparato al proscenio un colpo di pistola alla tempia, Konstantín torna indietro e si unisce al coro degli altri personaggi che ballano, guarda un po’, al ritmo della «Felicità» di Al Bano e Romina. In fondo di quel colpo di pistola non c’era bisogno, Trepliòv era già morto: come, giusto, gl’immemori ballerini che lo accolgono sotto specie di un figliol prodigo allontanatosi per un momento verso l’illusione d’essere vivo.
A mia volta, poi, non ho bisogno di sottolineare quanto siano bravi gl’interpreti in campo: Francesco Meola (Trepliòv), Camilla Pistorello (Nina), Camilla Violante Scheller (Mascia), Dario Merlini (Medvèdenko), Dario Sansalone (Dorn), Umberto Terruso (Trigòrin), Fabio Zulli (Sòrin) e Daniele Crasti (Jàkov). Tutti insieme, concorrono come meglio non si sarebbe potuto alla riuscita dell’operazione: che è quella, e scusate se è poco, d’immaginare quanto Cechov non ha scritto e, invece, ha pensato mentre s’accingeva a mettere sulla carta il plot e i personaggi del capolavoro in questione.

                                                                                                                                             Enrico Fiore

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