Per i figli della provetta la ninnananna di Elvis Presley e Villa

Un momento di «Pedigree» (le foto che illustrano l'articolo sono di Angelo Maggio)

Un momento di «Pedigree» (le foto che illustrano l’articolo sono di Angelo Maggio)

CASTROVILLARI – Sono in sei, e si ritrovano ogni anno per il pranzo di Natale: Lui, Chang, Ben, Conchita, François e Jack. Festeggiano insieme il Natale ogni anno a casa di uno di loro. L’anno scorso a Pechino da Chang, due anni fa a New York da Jack, tre anni fa a Sydney da Ben, quattro anni fa a Parigi da François, cinque anni fa a Madrid da Conchita e quest’anno a Roma, per l’appunto da Lui.
Ma – come avrete capito dai loro nomi e luoghi di residenza – quelli che compongono il gruppo di fratelli messo in campo da «Pedigree», il testo di Enrico Castellani presentato da Babilonia Teatri nell’ambito della XVIII edizione della rassegna «Primavera dei Teatri», sono fratelli particolari: nel senso che si tratta di fratelli biologici, nati da madri diverse e da un solo padre, un anonimo donatore di sperma. In breve, costituiscono sei rappresentanti esemplari della «generazione della provetta».
Quale sia la loro condizione l’esprime giusto Lui, il narratore, quando – rivolgendosi al padre che non conosce – gli dice: «Tu per me sei sempre stato una parola su cui tirare un segno, una parola da cancellare e da sostituire con un’altra. Ogni volta che mi trovavo davanti la scritta mamma e papà tiravo una linea e correggevo mamma e mamma».
Infatti, Lui ha due mamme, mamma Marta e mamma Perla, e nessun padre: nessun padre riconoscibile fisicamente e, invece, un padre che si riduce a quell’aggettivo, biologico, ad un tempo evanescente ed opprimente. E dunque, è l’ossimoro indotto da una scissione dell’anima e della dualità genitore/genitrice codificata dalla società ciò che assume come leitmotiv il testo di Castellani. Di qui il fatto che Lui dichiari: «Io non sono un essere binario» e che specifichi: «Io voglio i forse i ma le opinioni divergenti le minoranze le sfumature le intonazioni le differenze i colori», concludendo: «Per me non esistono solo bianco o nero vero o falso bene o male pro o contro».
Siamo di fronte, poi, a un ossimoro che diventa insieme drammatico e tenerissimo allorché, sempre rivolgendosi al suo padre ignoto, Lui prima gli dice: «Lascia che io abbracci quel corpo da cui sono partito, vorrei conoscerne l’odore e il calore, conoscerne il suono ed il rumore» e subito dopo implora: «ma non scoprirmi gli occhi, lascia che io non veda, lascia che io viva ignorando la tua figura».

Enrico Castellani in un altro momento dello spettacolo

Enrico Castellani in un altro momento dello spettacolo

 Già. «Riflettermi nei tuoi occhi mi fa paura», riassume Lui. Perché Lui possiede solo le parole in quanto segni grafici: a partire dal «pedigree» che hanno visionato le sue due mamme a pagina 28 del book dell’ospedale. E invece ha bisogno – il Lui che si sente come un alieno dei film di fantascienza, di quelli in cui «le astronavi volavano su cieli di cartone», e aspetta «che il cartone marcisca e si decomponga», «che sparisca» e che gli «lasci vedere il cielo e le stelle» – di «nomi per chiamare le cose».

Insomma, il testo oscilla fra l’analisi gelida di una situazione ormai ricorrente nel nostro mondo lacerato e la dolcezza di un anelito all’innocenza di sentimenti antichi: un anelito che poi, molto più in profondità, consiste nella spinta verso una ritrovata fraternità, verso la riconquista dell’età dell’oro in cui, appunto, dalla «provetta» dell’individualità esistenziale e intellettuale si spargeva non il seme onanistico dell’anonimato, ma la forza vitale di pensieri che s’incarnavano in parole capaci, giusto, di chiamare e, quindi, di far esistere le cose.
Ebbene, l’allestimento di «Pedigree», curato da Valeria Raimondi, gira intorno a due oggetti di scena che, affiancati, traducono perfettamente tutto quanto ho fin qui osservato: a sinistra un girarrosto elettrico e a destra una poltrona con i fianchi e i braccioli sostituiti da ruote posteriori di moto, parafanghi, fanali e tasche laterali. E da una di queste tasche l’interprete tira fuori dei polli (se ne parla nel testo, a proposito del pranzo natalizio dei sei fratelli), li infilza sullo spiedo e li mette a cuocere nel girarrosto per la durata esatta dello spettacolo.
In breve, vengono accoppiati, simbolicamente, il dato realistico in sé concluso (un singolo oggetto, che svolge davvero la funzione per cui è stato creato) e il dato psicologico in divenire (un oggetto che risulta da più oggetti, sì da configurare la parcellizzazione e, perciò, la frantumazione del dato realistico).
Tanto suggerisce, ad esempio, l’intensa e bellissima sequenza che, accompagnata dalla «(I can’t help) Falling in love with you» di Elvis Presley, vede l’interprete che appende sulle grucce i due vestiti bianchi delle sue due mamme, li bacia, li accarezza e li lancia in una danza gioiosa e immemore nel cielo del desiderio impossibile che uno dei due sia l’immagine del padre. E infatti, i due vestiti saranno poi chiusi in buste di plastica da cui verrà completamente aspirata l’aria: siamo di fronte alla «conservazione» della Madre e, di pari passo, alla sua «messa fra parentesi», in attesa del Padre.
Ma, per il momento, quella realtà, la realtà della Madre, è la sola che gli è data: sicché l’interprete, a un certo punto, diventa lui stesso la Madre, simulando la gravidanza con l’applicarsi sul ventre, sotto le mutande tirate su dai pantaloni, la gran tetta di plastica che prima, calando dall’alto, s’era offerta ai suoi baci. E finisce come non poteva non finire, con Lui (lo stesso Enrico Castellani, bravissimo) che, inverando il testo fino all’iperrealismo, si mangia tranquillamente una coscia di pollo ormai cotta a puntino.
Accarezzano lo spettacolo, come con una ninnananna che oggi si definirebbe post-moderna, anche il Presley che all’inizio canta «Love me tender» e alla fine «White Christmas», imitato dietro un microfono dal direttore di scena Luca Scotton. Mentre tocca al reuccio Claudio Villa la fatidica «Mamma». E insomma, per giunta sul filo di una sottile ironia, Babilonia Teatri colpisce ancora nel segno, con una proposta lucida e tagliente che ci chiama in causa circa uno dei più scottanti problemi della nostra vita complicata.

                                                                                                                                            Enrico Fiore

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