«Un amore esemplare», molto fum(etto) e poco teatro

Una vignetta del fumetto «Un amour exemplaire», da cui è tratto lo spettacolo in scena al Bellini

Una vignetta del fumetto «Un amour exemplaire», da cui è tratto lo spettacolo in scena al Bellini

NAPOLI – «Jean aveva Germaine e Germaine aveva Jean». Con la precisazione: «E del loro amore, non parlavano mai».
Sono le due più importanti battute di «Un amore esemplare», lo spettacolo, in scena ancora oggi pomeriggio al Bellini, tratto da «Un amour exemplaire», il fumetto pubblicato da Dargaud nel 2015 e in cui, con le parole di Daniel Pennac e i disegni di Florence Cestac, si racconta la storia d’amore straordinaria della quale lo stesso Pennac fu testimone negli anni Cinquanta, mentre bambino passava le vacanze sulla Costa Azzurra.
Jean era il primogenito del marchese di Bozignac, ricchissimo produttore di vino, e Germaine la figlia dello straccivendolo Loignon. E «non avevano una buona reputazione» perché «erano una coppia improduttiva». Infatti, spiega Pennac, «nella buona società, per essere frequentabili, bisogna avere un mestiere, dei bambini, una seconda casa, bisogna uscire, ricevere, produrre conversazioni, citazioni, referenze, ricette, indirizzi, barzellette, racconti di vacanza, bisogna avere delle opinioni, delle convinzioni, una religione, un circolo sportivo, un ente di beneficenza…». Laddove, giusta la prima delle due battute citate, Jean e Germaine avevano solo se stessi.
Ma, giusta la seconda delle due battute («E del loro amore, non parlavano mai»), questa storia che sembra una favola nasconde temi e significati ben più profondi e intriganti. Mi torna ancora una volta in mente quel che dice il protagonista della novella di Pirandello «La carriola»: «Chi vive, quando vive, non si vede (…). Se uno può vedere la propria vita, è segno che non la vive più: la subisce, la trascina, come una cosa morta la trascina. Perché ogni forma è una morte».

Daniel Pennac e Florence Cestac in un momento di «Un amore esemplare»

Daniel Pennac e Florence Cestac in un momento di «Un amore esemplare»

Si tratta, di nuovo, dello scontro fra la letteratura e la vita: giacché, se Jean e Germaine avessero parlato del loro amore mentre lo vivevano, non avrebbero fatto altro che mettere in atto un equivalente del «gioco insensato» in cui, secondo Blanchot, si traduce lo scrivere. E tanto Pennac dimostra, anche sul filo di un’ironia tagliente e demitizzante. Quando Daniel domanda: «Jean, è vero che non hai mai lavorato?», lui risponde: «Ragazzo mio, in amore il lavoro è una separazione». E si scopre, quindi, che, per sbarcare il lunario, va vendendo le edizioni rare dei libri che gli ha lasciato in eredità lo zio Pacôme.
Non solo. Se gli chiedono a che cosa giocasse in casa di Jean e di Germaine, Daniel risponde: «A niente, li guardavo vivere». E riferendosi alle letture dei libri che si facevano quei due che erano il suo «modello d’innamorati», dice che, sì, quel modello gli è servito molto, ma non al punto d’impedire ciò che ha sperimentato con la sua terza fidanzata: «Quando le facevo la lettura a voce alta, si seppelliva viva!».
Tutto questo è a monte dello spettacolo che – prodotto dalla Compagnia MIA di Parigi e da Il Funaro di Pistoia in collaborazione con Laila e Comicon di Napoli – vediamo al Bellini, sotto specie dell’adattamento teatrale del fumetto di cui sopra ad opera dello stesso Pennac e di Clara Bauer, che firma anche la regia. Pennac, diventato un celebre scrittore, racconta quella storia che lo incantò nell’infanzia a una giornalista, che ne rimane a sua volta rapita fino al punto di tramutarsi in Germaine e nell’amica di quest’ultima Rachel; e contemporaneamente, alle parole dello scrittore si aggiungono le illustrazioni dal vivo della Cestac.
Ma occorre aggiungere subito che lo spettacolo in sé risulta di gran lunga inferiore ai temi e ai significati profondi e intriganti di cui sopra. Daniel Pennac legge dal fumetto in questione le sue battute in francese. E ne consegue che Ludovica Tinghi deve fare tre cose insieme: interpretare la giornalista ponendo le domande del caso allo scrittore, interpretare Germaine, Rachel e vari altri personaggi della storia e, soprattutto, tradurre in italiano le battute dette da Pennac. Sicché, lo capite, l’azione si blocca continuamente, dal momento che, alternativamente, per ripartire deve aspettare che la Tinghi finisca di tradurre o che la Cestac finisca di disegnare.
Né bastano, a movimentare l’insieme, i finti battibecchi fra Daniel e la stessa Cestac, tipo «No, così non va! Non era affatto così il naso di Jean. Lui non aveva un naso a patata». E non meno finto, del resto, si rivela anche l’happening con il pubblico: il presunto spettatore scelto a caso e chiamato sul palcoscenico a impersonare Jean è l’altro attore in campo, Massimiliano Barbini; e si fa scoprire immediatamente, perché, invece di leggere le battute dal fumetto che gli è stato messo in mano, le recita a memoria, senza nemmeno guardare sulle pagine.
Scontata, infine, pure la «colonna sonora» firmata da Alice Pennacchioni, la quale non sa trovare di meglio che citare – sì, avete indovinato – l’«Hymne à l’amour». E insomma, siamo di fronte al solito espediente praticato sempre più spesso dagl’impresari di oggi per attirare a teatro il pubblico latitante: con la sola differenza che stavolta, al posto del divo cinematografico o televisivo di turno, sul palcoscenico è stato cooptato uno scrittore di successo.

                                                                                                                                             Enrico Fiore

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