Manfredini, un epicedio per l’attore. Con bacio finale

Danio Manfredini in «Vocazione», ancora oggi pomeriggio al Teatro Area Nord (le foto che illustrano l'articolo sono di Manuela Pellegrini)

Danio Manfredini in «Vocazione», ancora oggi pomeriggio al Teatro Area Nord
(le foto che illustrano l’articolo sono di Manuela Pellegrini)

NAPOLI – Non ci sono dubbi. Come già in altre occasioni ho avuto modo di osservare, Danio Manfredini potrebbe a pieno titolo far suo il paradosso di Koltès: «Il teatro non mi è mai piaciuto, perché è evidentemente il contrario della vita: eppure ci torno sempre, e mi attira proprio perché è il solo posto nel quale si ammette subito che la vita è altrove». E lo dimostra ancora una volta «Vocazione», lo spettacolo prodotto dalla Corte Ospitale (si replica ancora oggi pomeriggio all’Area Nord di Piscinola) con cui questo grande «irregolare» della nostra scena torna dopo dieci anni a Napoli.
È uno spettacolo sul mestiere dell’attore. E così lo spiega Manfredini in una nota: «Con “Vocazione” metto a fuoco questo soggetto in un momento in cui sembra inutile, non necessario, occuparsi di quest’arte; fosse anche, come si dice, che il teatro è destinato a sparire, sarebbe comunque un privilegio dare luce al tramonto». Infatti, tra i personaggi di celebri testi qui evocati primeggiano eccelsi attori al termine della carriera: dal Minetti di Thomas Bernhard allo Svetlovodov di Cechov, passando per il Sir Ronald di Harwood. E di teatro, in ogni caso, si parla, direttamente o indirettamente, in ciascuno dei passi citati.
Per la precisione, si tratta di passi tratti – oltre che, appunto, da «Minetti» di Bernhard, «Il canto del cigno» di Cechov e «Servo di scena» di Harwood – da «Parsifal» di Mariangela Gualtieri, «Il gabbiano» (naturalmente ancora di Cechov), «Amleto» di Shakespeare, «Un anno con tredici lune» di Fassbinder, «Il teatrante» (sempre di Bernhard), «Lo zoo di vetro» di Tennessee Williams e «Conversazione con la morte» di Testori. Ma, giusti il paradosso di Koltès e la nota di Manfredini, quest’ultimo fa poi reagire i passi in questione, comunque riferiti al teatro in quanto Forma (nel senso pirandelliano), con le irruzioni della vita che senza preavviso mandano in frantumi quella Forma: irruzioni che coincidono con i prelievi urticanti e sanguinolenti dalla riscrittura dei personaggi protagonisti delle canzoni di Danio inserite nell’album «Vivi per niente» e da «Il sacro segno dei mostri», uno dei suoi più emblematici spettacoli precedenti.
Dunque, tra i vari Minetti, Svetlovodov e Sir Ronald s’insinuano, poniamo, un marchettaro rumeno che salmodia: «Vorrei trovar qualcuno / almeno un po’ di sesso / andrei quasi a vedere / se c’è qualcuno al cesso» e un attore che piange: «Non voglio più stare qui / mio corpo basta basta / è morire vivi così / voglio stare spento / spento». Ed è il protagonista de «Il canto del cigno» che incarna nel modo più esemplare lo scontro tra la finzione (il teatro) e la verità (la vita) che, ripeto, costituisce la sostanza di «Vocazione».
Mentre in sottofondo si sente il Notturno n. 7 di Chopin, il suggeritore Nikita, vecchio come lui, trova Svetlovodov che s’è addormentato in teatro. E lui, lo stanco mattatore, ha un delirante sussulto d’orgoglio («Dove ci sono arte e talento non esistono né vecchiaia, né solitudine, né malattie, persino la morte conta per metà») che subito si spegne nella sofferenza della constatazione («No, Nikituska, è stata tutta cantata la nostra canzone… che talento m’illudo mai di avere? Sono un limone spremuto, uno straccio, un mucchio di ruggine e tu un vecchio ratto di teatro, un suggeritore… Andiamo!»).

Danio Manfredini in un altro momento dello spettacolo

Danio Manfredini in un altro momento dello spettacolo

Inutile, a questo punto, sprecare parole sull’incomparabile forza scenica di Manfredini, qui ben affiancato da Vincenzo Del Prete nei ruoli della «spalla» e, appunto, del «servo di scena». S’inscrive, quella forza, in una presenza/assenza che trova riscontro nella voluta marginalità di Danio a fronte dei tre Premi Ubu vinti come autore, regista e attore. E ci prende immediatamente, la vertigine del corpo di Danio, glorioso e sconfitto insieme e glorioso proprio perché sconfitto: quando – sull’onda di «Vesti la giubba» cantata da Pavarotti – comincia lo spettacolo barcollando e nello stesso tempo lanciando uno sguardo di febbrile speranza verso il tavolino del trucco. Uno sguardo che, perciò, è anche la premessa dell’estremo virtuosismo tecnico che poi Manfredini dispiegherà passando, ad esempio, dalla malinconia inguaribile di Nina («Io sono un gabbiano… Che c’entra. Sono un’attrice») al gigionismo grottesco di Sir Ronald («Questo è il mio lavoro, io faccio l’attore… Ma a chi importa se ogni sera in scena mi mangio la vita?»).
Infine, sacerdote dell’ultimo rito, Danio indossa ancora una volta la parrucca, la minigonna di piume, le calze autoreggenti e le ali rosse di Samira, il travestito di «Cinema Cielo». E non poteva essere che così. Perché – se c’è un posto in cui «si ammette che la vita è altrove» con decisione e franchezza maggiori che nel teatro, un posto in cui, anzi, si va proprio per fuggire dalla vita in quanto «ufficialità» e ordine (morale, sociale, culturale) costituito – quel posto è la sala a luci rosse, appunto come quella milanese del titolo: nel teatro, almeno, ci sono i corpi degli attori e degli spettatori, e reale è il rapporto che si stabilisce fra gli uni e gli altri; nella sala a luci rosse ci sono soltanto i fantasmi dei corpi (e del sesso) sullo schermo e quelli del desiderio in platea, e tra gli uni e gli altri non può stabilirsi che un rapporto onirico, e dunque al tempo stesso sordido (poiché il suo oggetto è occasionale) e sublime (poiché, tenuta lontana, fuori, la vita reale ce la si può immaginare diversa e, quindi, ricrearla).
Samira, ora, ripete al proscenio, fissando gli spettatori, le parole – un ossimoro, ma salvifico ossimoro – della «Conversazione con la morte» di quel Giovanni Testori che, pur essendo uno dei più grandi intellettuali italiani, scelse anche lui la marginalità: «Per me adesso è tardi; / per me la sera ormai è già qui. / Ma se da qui posso darvi una mano, / la mia, / questa vecchia, umiliata, sporca, / eppure ancor tremante mano: / se posso, da queste assi, ecco…aiutarvi… / il vagabondo se ne va, / se ne va il profeta della morte… / un giorno qualcuno sarà profeta di vita; / a me non è stato possibile. / A me è stato possibile solo dirvi questo: / riunite la morte alla vita. Riunitele… / così come sta accadendo a me / in un bacio, / nel bacio che vi do». E di suo aggiunge: «A tutti gli artisti, a quelli che sono qui, a quelli che non sono più con noi», mentre s’allontana verso il buio con un lieve cenno di saluto.
Quel bacio il pubblico che gremiva ieri sera il Teatro Area Nord l’ha ricambiato gettando sul palcoscenico due rose rosse, come si faceva con le dive dell’Ottocento. Perché ieri sera c’era un pubblico vero, il pubblico vero che ormai puoi incontrare solo, per l’appunto, nelle piccole sale marginali. Non il pubblico delle grandi sale che, salvo rarissime eccezioni, consuma il teatro unicamente come passatempo da infilare tra la pizza e la canasta settimanali. Tra il palcoscenico e la platea ieri sera è corso un brivido di fraternità. Una signora è uscita con le lacrime agli occhi.
Per mio conto, trovo un eco delle parole di Testori e di questo spettacolo nella frase di Cendrars che sempre mi torna in mente quando rifletto sulla natura del teatro: «Solo un’anima piena di disperazione può raggiungere la serenità, e per essere disperati, bisogna aver molto amato il mondo, e continuare ad amarlo». Infatti, nulla come il teatro si rivela, insieme, assolutamente disperato e altrettanto amorevole, essendo costretto a fingere la vita nel momento stesso in cui vive.

                                                                                                                                             Enrico Fiore

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2 risposte a Manfredini, un epicedio per l’attore. Con bacio finale

  1. Lello Serao scrive:

    Grazie, Enrico, come sempre una visione d’insieme stimolante e che apre una riflessione su dove stiamo andando, a partire dalla domanda: c’è futuro per questa sublime arte?
    Un abbraccio.
    Lello Serao

  2. Enrico Fiore scrive:

    Caro Lello,
    il futuro ci sarà se ancora ci saranno artisti come Danio Manfredini e operatori, come te, che avranno la sensibilità e il coraggio di dare spazio ad artisti come Danio Manfredini mentre intorno dilagano la stupidità, l’ignoranza e l’affarismo.
    Ti ricambio l’abbraccio, con la stima e l’affetto di sempre.
    Enrico Fiore

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