Duello all’ultimo stereotipo fra Diana e Lady D

Serena Autieri in un momento di «Diana & Lady D», in scena all'Augusteo

Serena Autieri in un momento di «Diana & Lady D», in scena all’Augusteo

NAPOLI – Vincenzo Incenzo ha fatto il bis. Nel 2014 portò al Diana, in veste di autore e avendo come protagonista Serena Autieri, lo spettacolo «La sciantosa», che aveva l’ambizione di tracciare un ritratto di Elvira Donnarumma. E adesso porta all’Augusteo, in veste di regista oltre che di autore e sempre avendo come protagonista Serena Autieri, «Diana & Lady D», uno spettacolo che ha l’ambizione di tracciare un ritratto, per l’appunto, di Diana Spencer.
Ma, parlando di bis, non mi riferivo soltanto al fatto che i due spettacoli in questione hanno in comune l’intento, l’autore e la protagonista. Mi riferivo soprattutto al fatto che, come il testo de «La sciantosa» era carico dei più logori luoghi comuni circolanti su Napoli e sulla sua cultura, fornendo della vicenda umana e artistica della Donnarumma solo particolari minimi e abbondantemente noti, così il testo di «Diana & Lady D» è carico delle più ovvie cadenze sentimentalistiche partorite dal «mito» della «principessa triste», fornendo della vicenda umana e «politica» della Spencer solo particolari altrettanto minimi e noti.
In pratica, e giusto il titolo, l’intento era quello di dar luogo a un duello, o almeno a un incontro/scontro, tra le due facce di Diana, ovvero tra la persona e il personaggio, tra la dimensione del privato e quella del pubblico. Infatti, lo spettacolo parte con la scena in cui Diana, truccandosi nel suo appartamento dell’Hotel Ritz per andare all’appuntamento con Dodi che l’aspetta in macchina, scorge nello specchio l’immagine dell’altra se stessa, appunto Lady D.

Lady Diana

Lady Diana

Ma sentite che cosa Incenzo dice al riguardo nelle sue note di regia: parla dell’«idea di un monologo verbale e fisico che potesse, entrando con violenza e tenerezza negli aspetti emotivi e nelle dinamiche psicologiche della complessa personalità di Diana, scardinare l’esteriorità per portare alla luce i lati più nascosti o taciuti di un personaggio ancora tutto da scoprire, e, con quel personaggio, il percorso duplice e misterioso che ognuno di noi attraversa oscillando tra ciò che si è e ciò che si vorrebbe essere. Strappare le radici di noi stessi per farle brillare senza paura al sole, nell’illusorio quanto coraggioso tentativo di fare un piccolo passo in avanti nella conoscenza dei nostri abissi e dell’origine ignota delle nostre lacrime e dei nostri sorrisi».
Nientemeno. Roba che neanche Freud, Pirandello e Lacan messi insieme. E il risultato di tanto proclama consiste, ciò ch’era fin troppo facile prevedere, nell’opporsi di stereotipi a stereotipi, e del tipo più elementare che si potesse prendere in considerazione: che so, Diana in groppa a un cavalluccio di legno, Diana che si sente non accettata perché il padre voleva un maschio, Diana dal carattere ribelle, Diana che ha il complesso di essere troppo alta, Lady D che che soffre l’«incubo» di Camilla, Diana/Lady D che dichiara «Non so più chi sono», Diana che se n’esce con la frase a effetto «Mi uccisero l’anima con un flash», Diana che si lamenta perché Carlo «ha sempre pensato solo al suo piacere», Diana che perciò si rifugia nell’alcool, Diana/Lady D che si sente offesa perché lo stesso Carlo l’ha accusata d’essere ingrassata, Diana disprezzata dalla Regina, Diana/Lady D che va ad assistere i bambini africani… e così via «aneddotizzando».
Il tutto, poi, viene riassunto dalla gabbia sormontata dallo stemma reale che scende a imprigionare la principessa. Col che, l’avete capito, si completa il disegno – qui perseguito con decisione drasticamente manichea – di trasformare Diana in una Santa Martire: tanto che sul fondale, a un certo punto, compaiono diapositive di celeberrime opere d’arte in cui il viso della Madonna di turno è stato sostituito con quello della Diana/Autieri, fino, addirittura, alla Pietà di Michelangelo.
Completano il quadro coreografie, filmati d’animazione e canzoni che hanno, evidentemente, lo scopo precipuo di sostenere, per quanto è possibile, un copione altrettanto evidentemente debole e asfittico. E insomma, non facciamola lunga più del dovuto: questo spettacolo si riduce, in sostanza, alla prova in sé di Serena Autieri. La quale, sia ben chiaro, appare non poco apprezzabile: per l’adesione fisica al personaggio e, specialmente, per la maestria che dispiega sul piano del canto. Ma, per concludere, che c’entrano «The sound of silence» di Simon & Garfunkel e «Per Elisa» di Beethoven?

                                                                                                                                             Enrico Fiore

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