La vita come l’insetto prigioniero di una goccia d’ambra

Carlo Cecchi e Fulvia Carotenuto in una scena de «Il lavoro di vivere» (foto di Fabio Artese)

Carlo Cecchi e Fulvia Carotenuto in una scena de «Il lavoro di vivere» (le foto dello spettacolo sono di Fabio Artese)

NAPOLI – Di due passi di due autori fra loro diversissimi mi son ricordato mentre, al Nuovo, assistevo all’allestimento de «Il lavoro di vivere» di Hanoch Levin, presentato dal Teatro Franco Parenti per la regia di Andrée Ruth Shammah. Il primo è la battuta che pronuncia, ne «Il giardino dei ciliegi» di Cechov, l’ottantasettenne cameriere Firs: «La vita è passata, e io… è come se non l’avessi vissuta»; e il secondo è la considerazione che nella novella «La carriola» fa Pirandello: «Chi vive, quando vive, non si vede. […] Se uno può vedere la propria vita, è segno che non la vive più: la subisce, la trascina, come una cosa morta la trascina».
Infatti, qui abbiamo un marito, Yona Popoch, e una moglie, Leviva, che in una notte d’inverno, nella loro camera da letto, prendono improvvisamente ad aggredirsi, vomitando l’un contro l’altra e viceversa, senza tregua, un mare di accuse crudeli. E l’argomento di tanto furiosa lite è per l’appunto la loro vita. Hanno passato insieme trent’anni. E adesso lui le rimprovera d’essere stata solo «un culo» e lei gli risponde tacciandolo d’essere «merce da poco fatta con materiale scadente».
Ma, anche se Yona annuncia che vuole andarsene, e fa anche la valigia, non se ne andrà: il suo andar via sarà puramente e semplicemente la morte. E la cosa tremenda del testo di Levin – giuro che raramente ne ho letti e sentiti recitare di altrettanto violenti e feroci – è che quel mare di parole taglienti come lame di rasoio risulta perfettamente inutile. Sia Yona che Leviva sanno in anticipo, come dichiarano e rimarcano, ciò che di lì a pochi secondi dirà l’altro.

Hanoch Levin

Hanoch Levin

Eccola, allora, la vita che non si vive più perché la si vede e, peggio, la si prevede, immobile come un insetto imprigionato per sempre in una goccia d’ambra. E così c’è una battuta di Yona – collocata all’inizio, e dunque in posizione fortemente icastica – che sembra proprio ricalcare quella del cechoviano Firs: «Tutti sono vissuti e tutti sono morti e a tutti in un modo o nell’altro la vita gli è passata accanto».
Già, paiono, Yona e Leviva, due degl’implacabili personaggi di Bernhard. E in particolare, nel loro girare in tondo, respirando l’aria viziata dalle torture, sempre le stesse, che s’infliggono a vicenda, avvertiamo l’eco della battuta che ne «La forza dell’abitudine» pronuncia Caribaldi: «Noi non vogliamo la vita, eppure la si deve vivere». Ma non bisogna dimenticare che Hanoch Levin è un israeliano. E dunque fa puntualmente capolino, nel suo testo, l’umorismo del «witz», la tipica, sottile e irresistibile storiella ebraica: sicché, da questo punto di vista, Yona e Leviva somigliano anche ai personaggi di Shalom Alechem, sono fratelli di Tewje il lattivendolo.
Del resto, è proprio sulla base di quest’ambivalenza del testo che, verso la fine, può ritornarci in mente l’ossimoro di Cardarelli: «Amore, amore, come sempre, / vorrei coprirti di fiori e d’insulti». Ben a ragione potrebbero scambiarselo, Yona e Leviva. E in tal modo, accade pure, ne «Il lavoro di vivere», che compaia il fantasma di un ritrovato sentimento.
Ma lo sappiamo, la grande scrittura è sempre una scrittura che si mette in discussione nel momento stesso in cui si fa. E di conseguenza, se un moto di tenerezza prende Yona, indossa parole del genere: «Con quanta semplicità, Leviva, hai preso la tua vita come si prende uno spazzolino da denti e l’hai messo in un bicchiere assieme al mio». L’amore si spegne, appunto, nella più insignificante delle abitudini. Torna Bernhard, e gelido come la superficie di uno specchio è quel terzo personaggio, Gunkel, che arriva con la scusa di aver bisogno di un’aspirina.

Massimo Loreto nei panni di Gunkel

Massimo Loreto nei panni di Gunkel

Davvero un gran bel testo, non c’è che dire; e ottimamente tradotto e adattato da Claudia Della Seta e dalla stessa Shammah. La quale ultima, poi, firma una regia che non poteva essere più attenta e precisa. Quel letto (ma sarebbe meglio parlare di ring) è collocato – su una pedana in discesa o, fate voi, in salita – al centro di uno spazio scenico per il resto quasi completamente vuoto, salvo due sedie. E i soprabiti sono appesi a semplici chiodi piantati nei nudi pilastri di cemento. In breve, assistiamo a una zoomata che porta in primo piano l’essenziale, appunto il ring su cui si svolge il match all’ultimo sangue fra Yona e Leviva.
Allo stesso scopo obbedisce il fatto che di tanto in tanto i due protagonisti si rivolgono direttamente al pubblico, in pratica uscendo dallo spettacolo: è la zoomata sui singoli rounds e sui singoli uppercuts. E assai giustamente e intelligentemente, d’altronde, Andrée Ruth Shammah punteggia la rappresentazione con ricorrenti ululati di sirene e scoppi di tuoni: siamo di fronte a un esterno che, inquietante come quelli di Pinter, costituisce, col suo concreto realismo, un’efficacissima sottolineatura per contrasto del microcosmo concentrazionario che incatena all’astrazione Yona e Leviva.
È quasi superfluo, infine, rilevare che uno scarto del genere si determina anche fra i due, assolutamente straordinari, interpreti protagonisti: alla ben nota, impareggiabile recitazione da basso continuo di Carlo Cecchi, tutta gestualità stilizzata e ironia straniante, corrisponde la dimessa carnalità di una Fulvia Carotenuto attraversata dai brividi di una sperduta malinconia. Ed eccellente risulta pure Massimo Loreto nel ruolo di Gunkel. Insomma (non lo dico spesso, e adesso lo dico con convinzione e fermezza totali), questo è davvero uno spettacolo da non perdere.

                                                                                                                                             Enrico Fiore

Questa voce è stata pubblicata in Recensioni. Contrassegna il permalink.

4 risposte a La vita come l’insetto prigioniero di una goccia d’ambra

  1. Andrea Bisicchia scrive:

    Caro Enrico,
    le tue recensioni, oltre che essere colte perché sei l’ultimo dei dinosauri, sono sempre inusuali. Ripeto, la tua cultura è immensa, e giuste risultano le citazioni del “Giardino” e della “Carriola”, una novella che amo molto.
    Sono felice che lo spettacolo ti sia piaciuto.
    Un abbraccio.
    Andrea

  2. Enrico Fiore scrive:

    Caro Andrea,
    l'”ultimo dinosauro” sopravviverà finché ci saranno spettacoli come questo.
    Ti ricambio l’abbraccio.
    Enrico

  3. Fulvia Carotenuto scrive:

    Grazie, Enrico!
    Ti abbraccio.
    Fulvia

  4. Enrico Fiore scrive:

    Cara Fulvia,
    ti ricambio l’abbraccio. E ancora complimenti.
    Enrico

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *