Metti una sera a cena con il cinismo e la vigliaccheria

Un momento di «Souper», l'atto unico di Molnár in scena al Bellini per la regia di Fausto Paravidino

Un momento di «Souper», l’atto unico di Molnár in scena al Bellini per la regia di Fausto Paravidino

NAPOLI – All’apparenza è un gingillino innocuo, creato al solo scopo d’intrattenere. Ma se appena appena si scava sotto la superficie, ecco che il «bignè» rivela d’essere pieno, invece che di crema pasticciera, del veleno di cento cobra messi insieme. E mai come questa volta s’è detto a ragione, di un testo teatrale del passato, che sembra scritto oggi.
Parliamo di «Souper», l’atto unico di Ferenc Molnár (sì, proprio quello de «I ragazzi della via Pál») che lo Stabile del Friuli Venezia Giulia presenta al Bellini per l’adattamento e la regia di Fausto Paravidino. Il plot è molto semplice: mentre è in corso la cena che, in occasione del suo compleanno, un direttore di banca ha organizzato per celebrare insieme con gli amici più cari i fasti della propria carriera, arriva un ufficiale di polizia che invita il padrone di casa a seguirlo in commissariato. Sconcerto e reazioni isteriche, seguiti dal sollievo quando si scopre che l’ufficiale di polizia è in realtà un altro amico del direttore, Richetto Hausmann, che passa il tempo ad architettare scherzi del genere. Ma, lo accennavo all’inizio, una simile trama svagata nasconde temi seri, il primo dei quali risulta addirittura drammatico.
Mi riferisco al tema dell’immobilità: quella di una società (e, in particolare, di una certa borghesia agiata) chiusa – o, meglio, letteralmente trincerata – nel «bunker» del suo potere economico e dei privilegi che ne derivano. E il pregio del testo di Molnár sta nel fatto che non si limita a sviluppare, ma, puramente e semplicemente, è il tema in questione. Infatti, l’immobilità concettuale si traduce qui nella «fisicità» del ripetersi di determinate battute: poniamo, quelle del Giovanotto («Straordinario. Fortissimo»), degli ospiti («Giustissimo») e della Baronessa («Il giovanotto ha parlato proprio bene»).

Ferenc Molnár

Ferenc Molnár

Né si può sottovalutare, in proposito, l’ovvietà dei discorsi del Dottore: «Chi si prende il rischio di offrire una cena così, è sicuro che non ci guadagna proprio un bel niente»; e poi: «Chi si prende il rischio di mangiare tutta ‘sta roba, ci guadagna un bel bruciore di stomaco». Sicché lo  scherzo di Richetto è come l’improvviso, lieve alito di vento sul mare in bonaccia: le acque s’increspano per un attimo e subito dopo ridiventano una tavola.
Insomma, nella sua brevità (e questa, poi, gli conferisce un’icasticità ancora maggiore) l’atto unico di Molnár, datato 1930, fornisce un ritratto assolutamente fedele di una classe e di un ambiente che assurgono a paradigma ideale di una condizione esistenziale, morale, culturale e politica che continuiamo a scontare: una condizione in cui il vuoto della vita (della vita vera, intendo) è riempito solo dal cinismo, dal conformismo e dalla vigliaccheria.
Gli ospiti che partecipano alla cena offerta dal nostro direttore di banca non manifestano, al principio, nient’altro che la più vomitevole adulazione nei suoi confronti; ma immediatamente, appena sospettano che il potere che lo sostiene stia per vacillare e, forse, crollare, cambiano atteggiamento con la velocità di un lampo: prendono le distanze, sciorinano accuse circa taluni affari illeciti, fanno emergere tresche (con annessi regali costosi) fino ad allora notissime ma taciute… Salvo, naturalmente, riprendere a tessere le lodi dell’anfitrione quando Richetto rivela il suo scherzo.

Fausto Paravidino

Fausto Paravidino

Nulla, dunque, può intaccare veramente l’immobilità qui messa in campo: è questo, in definitiva, il messaggio sconsolato di Molnár. E bisogna dire che Paravidino lo accoglie e sottolinea, in partenza, attraverso una serie di segni precisi e persuasivi: all’aprirsi del sipario, vediamo per qualche minuto la tavola non imbandita e la scena completamente vuota, con la sola presenza di una cameriera zoppa; e poi, a mo’ delle didascalie di una comica finale da cinema muto, vengono proiettati sulle pareti – ad amplificarne l’enfasi – le battute riferite all’adulazione di cui sopra («Evviva! Evviva! Evviva!»), il suono delle risate («Ah! Ah! Ah!»), i richiami agli snodi narrativi capitali («L’affare dei boschi…», «L’anello col solitario», «Le lettere anonime») e, s’intende, la descrizione dell’atmosfera pesante che si determina con l’arrivo del finto ufficiale di polizia («Un generale senso di vergogna»).
Ma ecco che in seguito, con un imprevedibile e incomprensibile voltafaccia, Paravidino s’abbandona, tanto per fare qualche esempio, ad invenzioni come le seguenti: l’ufficiale di polizia diventa un carabiniere con aggiunta del proverbiale accento dialettale, la cameriera lancia di continuo sguardi teneri al padrone e, alla fine, trionfa – ubriachi cionchi tutti, a cominciare dal direttore che monta sulla tavola con la cuffia della cameriera in testa e il mocio in mano – un generale baciarsi sulla bocca, anche degli uomini con gli uomini. E così i personaggi-simbolo di Molnár vengono ridotti al rango minimo di macchiette: e nemmeno divertenti, a giudicare dalla pressoché totale assenza di risate alla «prima».
Degl’interpreti, attestati sul piano di un’ordinaria routine, citerei la sola Federica De Benedittis (la cameriera), che almeno ci mette l’efficacia delle controscene. Per riassumere, uno spettacolo sbagliato, ininfluente e superfluo. All’uscita dal Bellini, mentre aspettavo il tassì, un noto e competente frequentatore dei teatri mi ha gridato dall’altra parte della strada: «Hanno parecchie pietre da tirare, i ragazzi della via Pál!».

                                                                                                                                            Enrico Fiore

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