Addio a Luca Ronconi:
l’artefice rivoluzionario
di un teatro
al di là del teatro

Luca Ronconi

Luca Ronconi

Oltre che un maestro indiscusso e un didatta straordinario, Luca Ronconi – spentosi a 82 anni nel Policlinico di Milano, probabilmente a causa di un virus – è stato il sovvertitore implacabile di ogni tradizione, il sacerdote di un rito registico assolutamente inedito e innovativo, l’inventore di uno stile di recitazione unico, il rabdomante infallibile capace di estrarre preziose gemme drammaturgiche persino da testi di matematica e d’economia, l’autorevole direttore d’istituzioni prestigiose (della Biennale Teatro di Venezia, degli Stabili di Roma e di Torino, infine del Piccolo di Milano), il realizzatore di progetti stratosferici (vedi il «Domani» varato nel 2006 per le Olimpiadi della Cultura), il mitico creatore di spettacoli dalla lunghezza «monstre» (pensiamo solo all’«Ignorabimus» di Arno Holz, dodici ore di durata), il rifondatore di uno spazio scenico finalmente sottratto all’immobilità, il Tiresia degli allestimenti collegati all’attualità.
Aveva cominciato come attore, Ronconi. E pur non persuaso del tutto (e men che meno affascinato) da quel ruolo, si distinse tuttavia in allestimenti diretti da registi di rango come Costa, De Lullo, Squarzina e sinanche Antonioni; e recitò al fianco di colleghi quali Gassman, Carraro, la Villi e la Guarnieri. Poi la svolta: quando firma la messinscena dei «Lunatici» di Middleton e Rowley. E da allora, è un susseguirsi – addirittura fantasmagorico – di regie strepitose, e sempre, anche le meno riuscite, benedette da un’idea centrale illuminante. Fino alla consacrazione, nel ’69, con il rivoluzionario allestimento dell’«Orlando furioso» ridotto da Edoardo Sanguineti e che vedeva gli spettatori costretti ad abbandonare la fruizione passiva di sempre per farsi essi stessi artefici dello spettacolo.
In breve, erano loro a scegliere quale seguire delle azioni che si svolgevano simultaneamente, e loro spingevano i carrelli su cui si muovevano gli attori. Un tipo di allestimento, questo, che Ronconi in qualche modo riprese molti anni dopo, quando, nel 1990, portò in scena nel Lingotto di Torino prossimo alla chiusura la vertiginosa edizione de «Gli ultimi giorni dell’umanità» di Karl Kraus su cui aveva studiato per vent’anni in Francia oltre che in Italia. E questo dice, dunque, di un’altra delle doti precipue del regista nato (l’ennesimo segno, sia pur simbolico, di distinzione e, come scrisse acutamente Franco Quadri, «di distanziazione critica») a Susa, in Tunisia: parlo della coerenza, che dal piano teorico si trasferiva senza sforzo, quasi con naturalezza, su quello concretissimo della costruzione dello spettacolo.
Ma tanti, tantissimi sono gli allestimenti di Ronconi che vengono alla memoria in questo momento di concitato dolore. Ne cito solo alcuni: «Besucher» di Botho Strauss, «L’uomo difficile» di Hofmannsthal, «Re Lear» di Shakespeare, «L’aquila bambina» di Antonio Syxty, «Affabulazione» di Pasolini, «L’affare Makropulos» di Ĉapek, «Aminta» di Tasso, «Medea» di Euripide, «La vita è sogno» di Calderón de la Barca, «Candelaio» di Giordano Bruno, «Amor nello specchio» di Giovan Battista Andreini, «Peccato che fosse puttana» di John Ford, «Il silenzio dei comunisti» di Vittorio Foa, Miriam Mafai e Alfredo Reichlin…
In pratica, è passata per le mani di Ronconi l’intera storia del teatro, dai tragici greci ai nuovi e giovani autori di oggi. E non potevano mancare, nello svolgersi di una carriera tanto impegnata e variegata, gli appuntamenti con l’opera lirica: vedi, per fare solo qualche esempio, «Il viaggio a Reims» e «Il barbiere di Siviglia» di Rossini allestiti all’Odéon di Parigi, l’«Orfeo» di Luigi Rossi messo in scena alla Scala e quello di Monteverdi diretto a Firenze, la rilettura dei «Capricci» di Strauss con l’apporto di un’artista del calibro di Raina Kabaivanska. E non è un caso, allora, che proprio a Ronconi sia toccato nel 2006 riaprire il San Carlo, dopo i lavori di restauro, con «La clemenza di Tito» di Mozart.

Da sinistra, Elif Mangold e Laura Marinoni in una scena di «Lolita» (foto di Luigi Ciminaghi)

Da sinistra, Elif Mangold e Laura Marinoni in una scena di «Lolita» (foto di Luigi Ciminaghi)

Occorre, adesso, fare almeno un accenno all’autentica genialità di Ronconi nel penetrare le ragioni profonde (e sinanche segrete) dei testi. La trasposizione in palcoscenico della «Lolita» di Nabokov, nel 2001, comprendeva questa invenzione. In procinto d’andare al ballo della scuola, Lolita aveva indossato un abitino vaporoso e scarpette di raso. E ad Humbert Humbert, che le aveva detto: «Sei bellissima. (…) Anche quando fai la finta tonta», ribatteva brusca: «That’s not English». E subito l’attrice che poi avrebbe interpretato Lolita da grande – non per pura coincidenza ingabbiata in una «mise» scura, da istitutrice o, per l’appunto, da traduttrice ufficiale in un congresso – interveniva a ripetere in italiano: «Questo non è un buon inglese».
Si poteva rendere meglio – di Nabokov, di quel russo trapiantato negli States e costretto ad adottare un idioma a lui straniero – l’affermazione secondo la quale «il vero senso» del suo romanzo «è che si tratta di un  affare amoroso tra l’autore e la lingua inglese»? Ed è per questo che, mentre nel 1992 assistevo nel Teatro dell’Elfo di Milano all’allestimento de «L’aquila bambina», una storia d’incesto, mi tornò subito in mente quello dei «Canti del rosario» che Georg Trakl dedicò alla sorella Grete, con la quale ebbe un legame, per l’appunto incestuoso, che pesò sulla loro vita come una colpa incancellabile, sino a spingerli entrambi al suicidio.
«Dove tu vai si fa autunno e sera, / azzurro animale che risuoni sotto gli alberi, / stagno solitario a sera. / Piano risuona il volo degli uccelli, / tristezza sull’arco dei tuoi occhi. / Risuona il tuo sorriso stento. / Dio ha curvato le tue palpebre. / Stelle cercano a notte, creatura di dolore, l’arco della tua fronte». E proprio in ciò consisteva l’incredibile precisione dell’allestimento: chiuso in un’astrattezza che impediva qualsiasi lenocinio della parola, s’identificava perfettamente con la poesia di Trakl, che è l’estremo guizzo della fiamma un attimo prima del buio.
Sì, la grandezza di Ronconi stava nel fatto d’essere un regista teatrale che spingeva il teatro al di là del teatro, nella terra di nessuno pericolosa ma fraterna che esiste fra la rappresentazione e la vita. E siano allora i versi di Trakl a incarnare il mio addio. È un addio commosso, oltretutto. E non poteva essere diversamente. Ricordo la modestia affettuosa con la quale lui, Luca Ronconi, mi accoglieva ad ogni «prima» dei suoi spettacoli: «Grazie di essere venuto».

                                                                                                                                             Enrico Fiore

(«Il Mattino», 22 febbraio 2015)

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