Adesso i banditi di Genet sono diventati trans-streghe

Da sinistra, I-Chen Zuffellato, Silvia Calderoni ed Emanuela Villagrossi in una scena di «Raffiche»

Da sinistra, I-Chen Zuffellato, Silvia Calderoni ed Emanuela Villagrossi in una scena di «Raffiche»

BOLOGNA – Naturalmente, la prima sera è corsa subito la polizia, chiamata dai clienti dell’albergo che avevano sentito gli spari e non sapevano ch’erano a salve. È cominciata così la vicenda di «Raffiche – Rafales > Machine (cunt) fire», lo spettacolo di Motus presentato in una stanza dell’Hotel Carlton – nell’ambito della rassegna Vie Festival promossa da Emilia Romagna Teatro – come momento iniziale di «Hello Stranger», il progetto speciale che la città di Bologna dedica alla compagnia riminese, una delle punte più avanzate della ricerca teatrale, in occasione dei venticinque anni di attività.
Ma occorre fare qualche premessa, a cominciare dal principio: che è costituito da «Splendid’s» di Genet, un testo scritto nel 1948 ma ritrovato solo negli anni Novanta. In Italia fu tradotto da Franco Quadri. E questa, in breve, è la sua trama.
In una camera al settimo piano di un albergo di lusso, appunto lo Splendid’s, sono asserragliati, insieme con un poliziotto corrotto, i sette componenti della banda «La Rafale (La Raffica)», capeggiata da Jean detto Johnny. Hanno rapito la figlia di un milionario americano e pretendono un riscatto. Ma, per un errore, l’ostaggio viene ucciso. E allora, per ritardare l’assalto delle forze di polizia facendo credere che sia ancora vivo, Jean prende la decisione di comparire sul balcone indossando l’abito da ballo della morta, completo di ventaglio, pizzi e paillettes. Tutto inutile, giacché il poliziotto corrotto, per salvare la pelle, prima lo ammazza e poi favorisce la cattura del resto della banda.

Alexia Sarantopoulou è Riton

Alexia Sarantopoulou è Riton

Fu proprio Motus, nel 2002, a portare in scena «Splendid’s», che non era mai stato rappresentato prima in Italia. E adesso – nel solco aperto da «MDLSX (Middlesex)», il loro precedente spettacolo basato sul rifiuto di accettare come a sé stanti, e quindi totalizzanti, sia il «maschile» che il «femminile» – ne propongono una versione per sole donne. E stanti le regole internazionali sul diritto d’autore, che vietavano loro di cambiare il sesso dei personaggi, hanno aggirato l’ostacolo ricorrendo a un testo autonomo, affidandone la stesura a Magdalena Barile e Luca Scarlini.
Di Genet restano i nodi drammaturgici fondamentali. Ma, per il resto, siamo di fronte a una pièce del tutto diversa, e nei contenuti e nelle forme. A partire dal fatto che qui la rapita è una giovane scienziata che partecipava a un convegno indetto dalle più grandi multinazionali del farmaco. E che cosa ha spinto la «Rafale» a un’azione del genere lo spiega con estrema chiarezza Scott, l’ideologo e intellettuale della banda: «Hanno cominciato loro. Ci hanno iniettato veleni, bombardati di chimica che ci distrugge corpo e mente. Ci annientano da dentro. Non basta più far saltare qualche laboratorio farmaceutico la domenica quando non c’è nessuno in giro. Finché le loro cure saranno violenza, la nostra violenza sarà la cura».
Ma questo rappresenta solo la superficie, l’esterno. Poiché Scott aggiunge: «La cosa più coerente da fare ora è sabotare noi stessi, o finiremo per prenderci troppo sul serio». Siamo per l’appunto al rifiuto d’ingabbiarsi in una definizione di genere data per sempre. E di qui il fatto che le componenti della banda in questione preferiscano definirsi, al contrario, «gender hackers», «rivoltose dell’identità».

Da sinistra, Ondina Quadri e Ilenia Caleo

Da sinistra, Ondina Quadri e Ilenia Caleo

Ne deriva uno spettacolo rigorosamente e, insieme, allegramente attestato sul versante di un continuo, vorticoso slittamento di senso e di sesso. «Dobbiamo essere Raf ma soprattutto Fiche. È nel nostro statuto», dice con ribalda protervia Bravo. Il che fa il paio con un eclatante: «Tremate, tremate, le trans-streghe son tornate». E a simili gaglioffi proclami fa riscontro, però, un Jean che intima: «Traditemi voi, prima che finisca per tradire me stesso o me stessa». Quell’ambivalenza sessuale (le componenti della banda continuano a chiamarsi fra loro con i nomi maschili immaginati da Genet) s’eleva nella circostanza, sotto specie di metafora, alla dualità uomo/Dio, ossia debolezza/onnipotenza, incarnata da Cristo nell’Orto degli Ulivi.
Credo che basti per dire della forza che anima questo spettacolo di Motus. Ed è, lo si sarà intuito, una forza che s’accoppia con la leggerezza: dal momento che la rappresentazione, ricorrendo spesso alla danza, assume a tratti persino l’aspetto di un musical: vedi, tanto per fare solo due esempi, l’irruzione del tango, con tanto di casqué e di rosa fra i denti, e di una sorta di quadriglia che schiera gli otto personaggi in campo, quattro da un lato e quattro dall’altro, sull’onda di «A mourir pour mourir» cantata da Barbara.
Peraltro – ecco il fecondo contraddirsi di «Raffiche» (e ricordiamo, del resto, che in «Splendid’s» ricorrono gag e risate) – non è, tutto questo, l’esatta trasposizione (nonostante le differenze nella trama) dei temi centrali e alti del teatro di Genet, dal fascino torbido della violenza al travestitismo, appunto, e dall’omosessualità come portato di una solitudine ontologica alla morte come ineludibile risvolto della vita?
Non resta, allora, che annotare la perfetta aderenza delle interpreti all’acuta e lucida strategia registica di Enrico Casagrande e Daniela Nicolò. Le cito tutte, come ugualmente brave: Silvia Calderoni (Jean), Ilenia Caleo (Rafale), Sylvia De Fanti (Bravo), Federica Fracassi (la poliziotta), Ondina Quadri (Pierrot), Alexia Sarantopoulou (Riton), Emanuela Villagrossi (Scott) e I-Chen Zuffellato (Bob).

                                                                                                                                            Enrico Fiore

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