I «pazzi» di Scarpetta fra Rossini e Pappagone

Una scena de «Il medico dei pazzi» in versione opera lirica (foto di Michele Crosera)

Una scena de «Il medico dei pazzi» in versione opera lirica (foto di Michele Crosera)

VENEZIA – «Il medico dei pazzi» di Scarpetta al Malibran, ossia in un teatro «costituzionalmente» (s’intitola a un celebre soprano…) votato alla lirica. Ma non è la trovata di un impresario eccentrico, né si tratta di una scelta determinata dall’indisponibilità di altri teatri. Siamo di fronte, per l’appunto, alla trasformazione di quella commedia in una vera e propria opera lirica, prodotta dalla Fenice, per la regia di Francesco Saponaro, su libretto e musica di Giorgio Battistelli. E c’è da aggiungere subito che l’operazione si rivela assolutamente plausibile, oltre che intelligente e gradevole.
Tanto, per cominciare, in ossequio alla stessa, notissima trama scarpettiana, ricavata dal testo, «Pension Schöller», che nel 1890 Carl Laufs sviluppò da un’idea di Wilhelm Jacoby. Fra gli ospiti della Pensione Stella che lo scioperato Ciccillo – allo scopo di mascherare lo sperpero dei soldi mandatigli dallo zio Felice Sciosciammocca, riccone di Roccasecca – fa passare per i pazzi rinchiusi in una clinica da lui diretta, compare Don Errico Pastetta, un maestro di musica che millanta una scrittura alla Scala come direttore d’orchestra; e si parla di «follia musicale» quando Ciccillo propone a Michelino di fingersi un pazzo convinto d’essere il più grande tenore del mondo, e pazzo, in particolare, della «Traviata».
Ma, ben al di là della trama, spicca la musicalità del testo in sé: vedi, per fare solo un esempio, il ritmo ternario (lo stesso di Goldoni!) che segna la battuta rivolta da Ciccillo a Michelino: «[…] e so’ curruto ccà, da te, per essere consigliato, per essere aiutato, per essere salvato». E questo senza contare che Scarpetta, nel reinventare in napoletano il vaudeville, non fece che adottare una forma; e il melodramma è giusto la forma chiusa per eccellenza.

Eduardo Scarpetta

Eduardo Scarpetta

Tuttavia, a parte la plausibilità dell’operazione sul piano formale, conta specialmente la sinergia che si stabilisce fra Battistelli e Saponaro sul versante dei contenuti. E qui è bene fare qualche premessa.
«Il medico dei pazzi» – scritta nel 1908, e che costituisce il canto del cigno di Scarpetta, il quale l’anno dopo abbandonò definitivamente le scene – non a caso sembrò a Vittorio Viviani «il lavoro più significativo del teatrante maturo, certamente il più attuale»: infatti, dimostra come don Eduardo – che, lo dicevo, fu il tramite presso la borghesia napoletana di un modello culturale di derivazione francese imposto dal capitalismo settentrionale dopo l’unità d’Italia – fu anche il primo a presagire la crisi che di lì a poco si sarebbe abbattuta su quella borghesia.
Qui, allora, Felice Sciosciammocca è, sì, ancora una volta, il borghese provinciale e agiato, ma appare come smarrito e assente: e non perché irrisolto in quanto personaggio, bensì perché funziona quale catalizzatore o, più esattamente, riscontro speculare della «follia» degli altri personaggi: una «follia» che, poi, consiste nello scarto fra la realtà e l’immaginazione, fra la miseria quotidiana e i sogni assurdi, fra il bisogno di conquistare una nuova identità di fronte alle certezze che cominciano ad incrinarsi e l’impossibilità di determinarla attraverso il contatto e il dialogo con il prossimo (un contatto e un dialogo perennemente minati, e davvero non per pura coincidenza, da una surreale girandola di equivoci).
Insomma, siamo in presenza di un’autentica prefigurazione delle fondamentali tematiche pirandelliane. E dunque Giorgio Battistelli ha approntato per la bisogna, con grande sapienza tecnica e non minore gusto, una partitura che, mentre si lega a stilemi rossiniani soprattutto per quanto riguarda i duetti, finisce a collocarsi – in virtù di una fitta trama di spezzature e dissonanze – nell’alveo di un’inquieta modernità.
Dal canto suo, Francesco Saponaro sposta l’azione al termine degli anni Cinquanta, quelli del famigerato «boom». E fa benissimo, perché, se ci pensiamo, il cosiddetto «miracolo economico» costituisce un perfetto equivalente della parabola scontata dalla borghesia di Scarpetta: prima l’euforia del consumismo e poi lo scoramento della crisi.

Giorgio Battistelli

Giorgio Battistelli

Del resto, in linea con una simile scelta, il libretto di Battistelli si apre e si chiude con il coro degli avventori del caffè alla Torretta che esplode in un autentico inno da invasati alla bevanda regina del locale: il caffè, appunto, declinato in tutte le sue possibili varianti, da quello macchiato a quello americano, passando per il caffè lungo, il caffè lungo in vetro, il caffè lungo in tazza grande e il caffè senza schiuma in tazza piccola.
Non è proprio l’immemore baldanza del consumismo che così deflagra, come un ballo frenetico a bordo del Titanic in rotta verso la catastrofe? E in più, per tornare alla musica, quell’inno rimanda al rincorrersi delle variazioni sul basso continuo tipico del Canone.
Ecco, quindi, che la regia di Saponaro tiene sempre presente il côté sociale che incornicia la vicenda scarpettiana. Una folla variegata (massaie con la borsa della spesa, preti, suore, perdigiorno che prendono il sole sulle sdraio, prostitute) circonda i personaggi protagonisti o sta ad occhieggiare dalle quinte il loro inane agitarsi.
Non meno significativo (le scene sono dello stesso Saponaro) risulta d’altronde il fondale: s’affiancano la cartolina del golfo di Napoli col Vesuvio, i palazzoni anonimi della speculazione edilizia e un patchwork alla Mimmo Rotella in cui s’intravvedono, poniamo, le facce di Sophia Loren, Vittorio De Sica e Peppino De Filippo. E a dire dell’apprezzabile e parimenti efficace coerenza interna che connota lo spettacolo, basta osservare che, qui, Felice Sciosciammocca è truccato esattamente come il Pappagone di Peppino, con tanto di ciuffo al centro della testa; e che la lettera di Felice a Don Carlo cita dichiaratamente quella leggendaria che Totò detta allo stesso Peppino in «Totò, Peppino e la malafemmina».
Ma su quella folla variegata un facchino, a un certo punto, scaraventa dall’alto di una trave dei palazzoni in costruzione una balla d’indumenti usati da cui vien fuori, prima di tutto, la bandiera americana a stelle e strisce. È la prova definitiva di come questo spettacolo diverta e, nello stesso tempo, induca a riflettere. Merce rarissima nell’attuale panorama del teatro italiano.
Ottima, infine, la direzione d’orchestra di Francesco Lanzillotta. E molto bravi (e assistiti a dovere dai costumi di Carlos Tieppo e dalle luci di Cesare Accetta) i giovani interpreti: fra i quali occorre citare – accanto ai protagonisti Sergio Vitale (Ciccillo) e Marco Filippo Romano (Felice Sciosciammocca) – almeno Loriana Castellano (Concetta), Milena Storti (Amalia), Giuseppe Talamo (Michelino) e Maurizio Pace (Don Errico Pastetta).
Ora, non sarebbe il caso che qualcuno prendesse in considerazione un allestimento del genere, contravvenendo una volta tanto all’inclinazione per il futile e il già visto che caratterizza stancamente i cartelloni napoletani?

                                                                                                                                            Enrico Fiore

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