L’elegia di un passato che fa rima con Moscato

Enzo Moscato in un momento di «Modo minore», che chiude Ravello Festival 2016

Enzo Moscato in un momento di «Modo minore», che chiude Ravello Festival 2016

RAVELLO – Un filo rosso lega fra loro le performances teatral/canore di Enzo Moscato: dalla prima, «Embargos» (1994), a questa, «Modo minore», che chiude nell’Auditorium Oscar Niemeyer (si replica stasera) il Ravello Festival 2016, passando per «Cantà» (1999), «Hotel de l’Univers» (2003) e «Toledo suite» (2008). E parlo del filo rosso costituito dall’ossimoro – insieme spiazzante e stimolante – per cui la musica si pone come la soglia fra il tormento di una condizione asfittica e il conforto di un’evasione immaginata.
Del resto, Moscato lo dichiarava già in partenza, per l’appunto con i due passi capitali del testo di «Embargos» che spiegavano la ragione del suo cantare: «Perché l’anima legata, canta. Il corpo vincolato, si dibatte. Altro non può fare. L’indifferenza, la quiete, appartiene agli stonati. E gli stonati, spesso, si tengono al di qua della passione, forse ne hanno orrore, come di un precipizio»; e ancora: «Chi canta sa bene di non appartenersi. O lo presume. Sa di non potere essere libero. Qualcosa lo trattiene: l’imponderabile, da cui solo il gorgheggio prende le distanze. E, pertanto, cantando, cerca di mutare, sognando, la propria condizione».
Un ossimoro che si manifesta, peraltro, nella stessa situazione ambivalente che Moscato vive sul palcoscenico mentre sviluppa queste sue particolari esibizioni: è solo, solo col suo corpo minuto e smarrito, solo con la sua voce diafana, sempre sul punto d’incrinarsi; e tuttavia gli fa compagnia una folla sterminata: le Bammenelle e gli emigranti di Viviani; gli assassini, gli evasi, le checche, i ladri e i marinai di Genet; i borgatari, i riccetti e le Mamme Roma di Pasolini; e persino Giuseppina, la misteriosa cantante di Kafka seguita dal popolo dei topi. Venuti su dal buio e dal silenzio dell’anima, stavano acquattati nelle anse, nelle ferite, nei minimi interstizi di quella voce: e ora, sotto la luce dei riflettori, esibiscono impudichi l’orgoglio della loro lacera ma gloriosa «diversità».

Pasquale Scialò

Pasquale Scialò

Infatti – lo si è visto anche in «Modo minore» – il corpo di Moscato tende continuamente e strenuamente a negarsi, nascondendosi in ogni anfratto dello spazio scenico e spesso confondendosi tra gli strumentisti: giacché il corpo medesimo rappresenta l’evidenza e il risaputo, scontando perciò la finitezza e la soggezione; e, quindi, tocca per l’appunto all’anima, ch’è libera, strappare alle anse, alle ferite e ai minimi interstizi della voce dell’interprete, essa stessa finita e soggetta come il corpo a cui appartiene, il calore e la luce della comunicazione: che sarà sempre, s’intende, una comunicazione non verbale.
A dire della straordinaria e pregnante coerenza concettuale e strutturale di «Modo minore» interviene, poi, il fatto che il nascondersi del corpo di Moscato sul palcoscenico trova un perfetto equivalente nelle rime interne (quindi esse stesse nascoste) che costellano il testo recitato fra una canzone e l’altra. Senza contare i sapientissimi arrangiamenti di Pasquale Scialò, che a loro volta riproducono l’ossimoro su cui insisto mescolando i preziosismi con le spezzature e le dissonanze. E senza contare che, naturalmente, a quest’ossimoro si adegua anche la scelta delle canzoni in scaletta, che alternano classici come «Accarezzame», «Giacca rossa ‘e russetto», «Arrivederci», «Cerutti Gino» e «Ciao amore ciao» a – di qui, soprattutto, il titolo – brani per l’appunto «minori» (specialmente in quanto semisconosciuti o dimenticati) come «’O bar ‘e ll’Università», «Nun t’aggio ‘a perdere» e «Mandolino d’ ‘o Texas».
A questo punto è perfino superfluo sottolineare che «Modo minore» è un’elegia del passato. E quale valore Enzo Moscato attribuisca al passato (non dimentichiamo, d’altronde, che il titolo della sua autobiografia adolescenziale, «Gli anni piccoli», è assai vicino a «Modo minore») viene esplicitato dal passo seguente: «La nostalgia! Dicono che ci si debba sentire in colpa a provarla, la nostalgia, se ci arrivano – dal cuore o dall’orecchio – antiche voci, antichi suoni. Nostalgia: come dir senso di colpa, disdicevole attitudine, morboso sguardo indietro che va dritto ad inquinare tutto il senso del presente! E perché mai? E chi è che si permette ‘sta sentenza? Mah! I Soloni ed i Catoni del flusso archetipico del Tempo! Quelli per cui l’oggi ed il domani vanno bene, sono okey, son positivi… mentre, invece, tutto ciò che si declina o che ci arriva al e dal passato, bisogna rifiutarlo e respingerlo nell’ombra – tra defunte e morte cose. Nel silenzio, l’afonia».

Sergio Bruni in concerto

Sergio Bruni in concerto

Al contrario, «Modo minore» grida che noi siamo ciò che siamo stati e che solo sulla base del nostro passato possiamo interpretare il presente ed eventualmente elaborare una strategia plausibile per l’avvenire. In breve, la nostalgia che s’accampa in «Modo minore» non è, assolutamente, una fuga, ovvero un espediente consolatorio. Basta a dimostrarlo questo solo esempio: l’omaggio, doverosissimo, all’immenso Sergio Bruni parte con «’O jukebox ‘e Carmela», un’incredibile esecuzione modernista a ritmo di calypso, e si conclude con una versione di «’Na bruna» il cui proverbiale afflato sentimentale Pasquale Scialò, con acuta intuizione, annega in un tempo lento da «funeral band» e, soprattutto, in un finale fatto solo di suoni distorti.
Direi che la sintesi di un tale discorso sta nel piccolo miracolo compiuto con l’esecuzione di «Bang bang»: Moscato fonde la gelida malinconia di Maurizio Vandelli con la passione straziata di Dalida. Ma ora, è giunto il momento di chiedersi quale sia, al di là della cronaca (ottima, fra l’altro, la prova dell’ensemble strumentale da camera in campo), la ragione decisiva di «Modo minore». E a me pare che consista nel senso di appartenenza e di fratellanza che continua ad esistere (e a resistere) tra i «felici pochi» di morantiana memoria.
Osserva la Sabina de «L’insostenibile leggerezza dell’essere» di Kundera: «Prima di scomparire definitivamente dal mondo, la bellezza esisterà ancora un poco per errore. La bellezza per errore è l’ultima fase della storia della bellezza». Lo spettacolo di Enzo Moscato e Pasquale Scialò è uno di quegli errori. E mi torna in mente, al riguardo, la lettera proprio fraterna, e per di più profetica, che Giorgio Strehler inviò a Moscato in occasione del debutto di «Embargos» al Piccolo. Lui si trovava a Stoccolma, «per parlare di teatro – scrisse – ad un’Europa che non c’è». E aggiunse: «Il mondo intorno: uno schifo da illuminare con sdegno e disperato amore. Come fai tu».
Insomma, possiamo attribuire a «Modo minore», come ideale epigrafe, le parole di Cendrars che ho sempre considerato un buon viatico per i nostri giorni attossicati: «Solo un’anima piena di disperazione può raggiungere la serenità, e per essere disperati, bisogna aver molto amato il mondo, e continuare ad amarlo».

                                                                                                                                             Enrico Fiore

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4 risposte a L’elegia di un passato che fa rima con Moscato

  1. Pasquale Scialò scrive:

    Caro Enrico,
    solo oggi ho saputo che avevi pubblicato questo scritto sul tuo sito: un’analisi che nella sua appassionata e inimitabile lucidità ci aiuta a disvelare le tracce sottese del nostro lavoro.
    Un abbraccio fraterno.
    Pasquale Scialò

  2. Enrico Fiore scrive:

    Caro Pasquale,
    ti ringrazio per i complimenti e ti ricambio l’abbraccio, nel segno di un’amicizia e di una stima antiche e immutate nel tempo.
    Enrico Fiore

  3. Cristina Donadio scrive:

    Com’è bello leggerti, Enrico, e quanto amore, quanta competenza, quanta antica saggezza in quello che scrivi… Hai ragione, beati noi felici pochi, sempre più pochi… e pietà per gli infelici molti… sempre di più…
    Con tutta la gratitudine, ti abbraccio con affetto antico.
    Cristina Donadio

  4. Enrico Fiore scrive:

    Grazie a te, cara Cristina. Ti ricambio l’abbraccio con identico affetto.
    Enrico Fiore

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