Socrate forward: la cicuta cede il passo alla pistola

 

Un momento di «Socrate il sopravvissuto - come le foglie» della compagnia Anagoor

Un momento di «Socrate il sopravvissuto – come le foglie» della compagnia Anagoor

VICENZA – «Serve che si levi un pensiero alto ed articolato attorno all’educare oggi, alla cura delle coscienze in formazione. Un pensiero che rilevi la stretta connessione tra processo della conoscenza e ricerca della giustizia, tra strumenti del conoscere (che è riconoscere e saper distinguere la verità dall’opinione) e pratica politica. Un pensiero che smetta di separare la filosofia dalla vita, che ricucia lo strappo tra anima e corpo e inviti all’eterna e mai perfetta ricerca della verità, unico baluardo contro l’assenza di senso della storia e dell’esistenza».
È il passo decisivo delle note al testo di «Socrate il sopravvissuto – come le foglie», lo spettacolo di Simone Derai e Patrizia Vercesi che la compagnia Anagoor ha presentato per la regia dello stesso Derai al Teatro Astra, nell’ambito del Festival «Conversazioni» curato da Franco Laera. E riassume in maniera assolutamente icastica i temi e gl’intenti dell’allestimento.
L’ispirazione è fornita da un romanzo di Antonio Scurati, per l’appunto «Il sopravvissuto», che narra di come nel giorno dell’esame di maturità uno studente, Vitaliano Caccia, massacri a colpi di pistola tutta la commissione, risparmiando soltanto Andrea Marescalchi, l’insegnante di storia e filosofia. E risulta evidente che, al di là di quello dell’educazione, il problema che deve affrontare Marescalchi e, nello specchio di lui, avrebbero dovuto affrontare i suoi colleghi che sono stati ammazzati è soprattutto il rapporto con la giovinezza: insieme la giovinezza propria e la giovinezza dei loro allievi.
Che si tratti del problema dei problemi è del resto dimostrato dalle epigrafi che Scurati mette al libro in sé («Avere addosso vent’anni è come avere la peste bubbonica», William Faulkner), al prologo («Al ragazzo che fui») e alla parte seconda del romanzo («Avevo vent’anni, non consentirò a nessuno di dire che è la più bella età della vita», Paul Nizan). E prima di sviluppare l’analisi dello spettacolo che ne ha tratto Anagoor, giova citare quelli che mi sembrano i due brani capitali del romanzo in questione.
Ecco il primo: «No, no, no, tre volte no. Questo delitto non ha bisogno d’altro per essere spiegato – non della società, non dell’interesse, non della malattia. La sua origine è posta da qualche parte nella vita corsa tra me, il maestro, e Vitaliano, l’allievo. È lì che dovrò andarla a cercare, nel tremendo mistero dell’educazione, nell’oscuro intreccio tra un maestro che troppo a lungo ha temuto di non saper fare, per poi scoprire alla fine di non aver saputo ciò che faceva. Un maestro che ha speso buona parte della sua carriera a compiangersi per la propria impotenza quando invece avrebbe dovuto diffidare della propria, inconsapevole, forza»; e questo è il secondo: «Il vecchio professor Marescalchi, l’eterno ragazzo fedele alla sua giovinezza, era il mandante morale dell’assassinio dei suoi colleghi, rei di aver violato l’alleanza pattuita con la loro. Lui aveva sempre pensato a quei professori di italiano, storia dell’arte, matematica come a dei traditori dei ragazzi che anni addietro, attizzati al fuoco della letteratura, dell’arte, della scienza, avevano intrapreso la carriera scolastica, e poi scelto la professione dell’insegnante, in un lungo percorso di estenuazione, al termine del quale di quel fuoco era rimasto soltanto il puzzo domestico di un gas da cucina incombusto in un fornello dimenticato acceso. I colleghi caduti sotto i colpi di Vitaliano avevano indubbiamente voltato le spalle allo sguardo gettato su di loro, come un ponte di fortuna, dalla loro giovinezza, lasciando i ragazzi che un tempo erano stati a vagare come cani randagi in un limbo tra il passato e il presente, a immiserirsi in una gelida piega del tempo».

Il professor Marescalchi (Marco Menegoni) tra i suoi studenti «che si negano»

Il professor Marescalchi (Marco Menegoni) tra i suoi studenti «che si negano»

Ebbene, credo che, pur non accogliendoli nel testo e non riferendosi ad essi direttamente, lo spettacolo di Anagoor non avrebbe potuto inverare meglio la sostanza morale e intellettuale di questi passi. A cominciare dal fatto che lo spettacolo dilata all’estremo il plot del romanzo di Scurati: il professor Marescalchi viene identificato con il Socrate che, nel «Fedone» di Platone, s’intrattiene con i discepoli prima di avvelenarsi come gli ha imposto la città. In breve, qui si chiama alla sbarra l’intera storia del pensiero occidentale. E al riguardo potremmo, per intenderci, coniare la locuzione «Socrate forward»: i colpi di pistola sparati da Vitaliano Caccia sono per Andrea Marescalchi l’equivalente della cicuta, poiché lo condannano, giusto in quanto sopravvissuto, a una solitudine che a sua volta costituisce – essendo lui un maestro, e stante, dunque, il suo vitale bisogno d’interlocutori – un equivalente della morte.
Un chiarissimo e lucidissimo insieme di segni provvede, del resto, a illustrare una simile strategia drammaturgica. La scena rappresenta un’aula scolastica, con i banchi debitamente allineati l’uno dietro l’altro su tre file. E ci torna subito in mente, è ovvio, «La classe morta» di Kantor. Solo che per Kantor la giovinezza era un rimpianto (vedi i manichini che i suoi vecchi si portavano dietro, simulacri di loro stessi bambini), mentre per Anagoor è, per l’appunto, una questione aperta e dolorosa.
Così, in «Socrate il sopravvissuto – come le foglie» non arriva il valzer che ne «La classe morta» spingeva quei vecchi a sollevarsi dai banchi in un empito irrefrenabile di resurrezione. I ragazzi che siedono nei banchi di Anagoor prima piombano in uno stato catatonico, poi s’abbattono all’indietro o di lato e infine scivolano a terra: semplicemente si negano, in quanto discenti. E infatti, quando si rialzano da terra, immediatamente abbandonano l’aula. Vi rientreranno – in un’aula in cui, nel frattempo, sono crollati sul pavimento anche i banchi e le sedie – solo per seppellire una di loro sotto una montagna di libri e per disporre sui banchi altri libri grondanti d’acqua.
Si poteva rendere in maniera più radicale il rifiuto della scuola come istituzione e trasmettere con altrettanta forza la denuncia di un’informazione che non si traduce in conoscenza, ma si disperde in mille rivoli come in un’inarrestabile emorragia della coscienza e del cervello?
Non a caso, sullo schermo che fa da fondale si alternano le immagini di riprese aeree di campi, case e fabbriche e quelle di personaggi abbigliati con costumi e maschere inscritti nella più proverbiale iconografia greca, a due dei quali danno voce, dal vivo, gli attori che hanno i ruoli di Socrate e di Alcibiade: è il sogno di una rigenerazione nella purezza e nell’equilibrio della classicità opposto alle sterili mappe di una sopravvivenza da catasto.
In conclusione, non faccio fatica a mettere come epigrafe, stavolta allo spettacolo (uno spettacolo importante, bello e acuto insieme), ciò che il testo, citando il Cees Nooteboom de «La storia seguente», ritiene l’approdo ideale del pensiero: «Il considerare le stupefacenti possibilità dello spirito umano di riflettere su se stesso, di rovesciare le convenzioni, di intessere una tela di domande e fissarla nel vuoto nulla in cui anche la certezza può negare se stessa». E non occorrono, infine, troppe parole per sottolineare la bravura degl’interpreti: primo fra tutti Marco Menegoni nel ruolo di Andrea Marescalchi, e poi, via via, Matteo D’Amore (Alcibiade), Iohanna Benvegna, Marco Ciccullo, Piero Ramella, Viviana Callegari, Massimo Simonetto e Mariagioia Ubaldi.
Anagoor si conferma, insomma, come una delle più significative realtà del teatro di sperimentazione. Mi fa ricordare quello che, giusto nell’«Apologia di Socrate», dice ancora Platone: «Una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta».

                                                                                                                                             Enrico Fiore

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