Michael Kohlhaas, quel giusto che divenne ingiusto

Marco Baliani in «Kohlhaas» (le foto che illustrano l'articolo sono di Gennaro Cimmino)

Marco Baliani in «Kohlhaas» (le foto che illustrano l’articolo sono di Gennaro Cimmino)

NAPOLI – «Il desiderio degli ingiusti è la vendetta». Questa, oltre ogni dubbio, è la battuta-chiave di «Kohlhaas», il notissimo monologo (un autentico spettacolo «cult») di Marco Baliani e Remo Rostagno che lo stesso Baliani ha riproposto nel giardino del Complesso di San Nicola da Tolentino in apertura dell’«Efestoval» di Mimmo Borrelli. E parlo di battuta-chiave perché costituisce un’icastica sintesi e del plot sviluppato nel testo da cui quel monologo discende (il racconto «Michael Kohlhaas» di Heinrich von Kleist) e delle differenze, sostanziali, fra quest’ultimo e il suo adattamento teatrale.
La trama, ambientata nel 1500, ruota intorno al personaggio del titolo, un mercante di cavalli brandeburghese al quale il signorotto Wenzel von Tronka sottrae con un raggiro due preziosi morelli: e di qui la serie impressionante di delitti (assassinii, incendi, saccheggi, stupri) che Kohlhaas, alla testa di una banda di servi e mercenari, compie (o incoraggia) nel tentativo di ottenere con le sue mani quella giustizia che per vie legali non gli è stata concessa. Insomma, e perfettamente in linea con la battuta citata, siamo di fronte al caso di un giusto che diventa ingiusto.

Heinrich von Kleist in un disegno di Peter Friedel

Kleist in un disegno di Peter Friedel

Ma la battuta in questione è di Baliani e Rostagno, non di Kleist. Così come è di Baliani e Rostagno, non di Kleist, il personaggio che la pronuncia: un vecchio eremita santo e saggio che Kohlhaas va a trovare nella sua capanna («marcia» e «umida») sepolta in un bosco affinché interceda per ottenergli il perdono di Dio. Al suo posto, nel racconto di Kleist c’è nientemeno che Martin Lutero. Kohlhaas lo incontra nel suo studio di Wittenberg e ne riceve una reprimenda tanto violenta («Il tuo alito è peste, la tua vicinanza è perdizione!») quanto inscritta, esemplarmente, nel gelido rigore della Riforma protestante.
Occorre, dunque, fare qualche precisazione circa il testo di Kleist. «Michael Kohlhaas», uno dei racconti più celebri di tutta la letteratura tedesca, fu pubblicato nel 1810. E vi si riscontra al più alto e incandescente grado espressivo, nell’ambito della cosiddetta «crisi kantiana» dell’autore, il dato che, secondo Ernst Cassirer, costituisce il motivo ispiratore fondamentale della sua poesia: l’«invalicabile frattura tra la legge del mondo interiore e quella del mondo esterno».
Baliani e Rostagno, invece, mettono fra parentesi la filosofia e s’attestano sul piano del sentimento. Mentre i racconti di Kleist, e quindi anche «Michael Kohlhaas», si presentano come referti impersonali (sono stati, infatti, definiti «verbali») dei casi soggettivi in cui la «frattura» predetta s’è incarnata. Non a caso «Michael Kohlhaas» reca il sottotitolo «Nach einer alten Chronik (Da una vecchia cronaca)», ha la fonte principale in «Nachricht von Hans Kohlhasen» (alla lettera: «Notizia di Hans Kohlhasen») del cronista berlinese Peter Haffitz e risulta connotato da una prosa che obbedisce a una sapiente strategia per quanto riguarda il collegamento fra gli snodi propriamente narrativi e le loro varie giustificazioni logiche.

Un altro momento di «Kohlhaas»

Un altro momento di «Kohlhaas»

Per riassumere, il «Kohlhaas» di Baliani e Rostagno volge in chiave romantica quello che, al contrario, nel «Michael Kohlhaas» di Kleist era impostato in una chiave drasticamente lontana sia dal Classicismo che, per l’appunto, dal Romanticismo: tanto che un personaggio della statura e dell’autorevolezza di Wieland poté scrivere che Kleist aveva colmato «la grande lacuna» della letteratura tedesca che non erano riusciti a colmare né Schiller né Goethe.
In breve, il Kohlhaas protagonista dello spettacolo di cui parliamo appare come un ribelle circonfuso di una luce vagamente sessantottina. E ne fa fede l’orgoglio che permea la chiusura del copione, ugualmente inventata rispetto a Kleist: «Ancora oggi in terra di Germania il nome di Kohlhaas è ricordato. E un’intera città prende il suo nome. Mentre del nome e della dinastia di quel principe di Sassonia si son persi nel tempo l’eco e la memoria».
Debbo mettere in chiaro, però, che non sto affatto esprimendo un giudizio negativo sullo spettacolo. Dico soltanto che è un’altra cosa a paragone del racconto di Kleist: e, del resto, proprio nell’essere un’altra cosa a paragone del racconto di Kleist consistono il valore e l’efficacia dello spettacolo di Baliani e Rostagno. Che infatti, datato 1990, fu il primo, o uno dei primi, a lanciare il genere diverso che fu definito «teatro di narrazione».
Voglio dire che troppo spesso assistiamo a spettacoli che – nel tentativo, quasi sempre destinato al fallimento, di trasferire sul palcoscenico un testo letterario – si traducono in ibridi che da un lato non sono più letteratura e dall’altro non riescono a diventare teatro. Qui, invece, abbiamo uno spettacolo che, nel suo farsi, è la metafora di un disegno concettuale del tutto innovativo circa il testo dal quale prende le mosse: l’immobilità della sedia su cui Baliani si posiziona dall’inizio alla fine costituisce un simbolico equivalente visivo dell’autoreferenzialità della pagina scritta, mentre i movimenti e i gesti che Baliani compie di continuo pur senza mai alzarsi da quella sedia costituiscono a loro volta la fuga nel teatro dall’oggetto letterario prescelto. E davvero, poi, non c’è bisogno di sottolineare quanto l’interprete sia bravo a trasformare il concetto in azione.

                                                                                                                                             Enrico Fiore

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