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Antonio Latella direttore del Settore Teatrale della Biennale
Candida Nieri in «MA», lo spettacolo di Latella presentato l’anno scorso alla Biennale Teatro (foto di Brunella Giolivo)
BUDVA – Scrivo dal Montenegro, dove sto trascorrendo qualche giorno di riposo. Ma molto volentieri interrompo quest’ozio (tuttavia, nell’occasione, foriero di pensieri forti in quanto scomodi e positivi in quanto volti all’avvenire) perché mi è giunta, via mail, una gran bella notizia: la Biennale di Venezia, presieduta da Paolo Baratta, ha nominato Antonio Latella direttore del Settore Teatro per il quadriennio 2017-2020.
Lo stesso Baratta ha così motivato la decisione: «Latella ha conquistato una posizione di grande rilievo nel teatro internazionale e potrà progettare festival di grande interesse, ma ha anche sviluppato una personale vocazione alla scoperta e alla formazione di nuovi talenti, tema quest’ultimo al quale la Biennale dedica particolare attenzione e impegno».
Antonio Latella
Dal canto suo, Latella ha dichiarato: «Prendendo forza dall’eredità lasciata dal grande lavoro fatto in questi anni da Álex Rigola, penso ad una Biennale Teatro che possa focalizzare la propria attenzione sulla ricerca del talento, ovvero su ciò che può porre le basi per il futuro prossimo del nostro teatro. Registi, drammaturghi, attori che non hanno forse grande risonanza nel panorama teatrale di oggi, ma che già stanno lavorando per creare nuovi linguaggi della scena. Talenti capaci di coniugare tradizione e innovazione, impegnati in un continuo scambio con affermati Maestri del palcoscenico, per provare a definire, o almeno a farci intuire, il teatro di domani».
Non c’è da sprecare parole circa la fondatezza e la lungimiranza di simili dichiarazioni. Basta a dimostrarne la validità «Santa Estasi – Atridi: otto ritratti di famiglia», il progetto firmato da Antonio Latella nell’ambito del Corso di Alta Formazione della Fondazione Emilia Romagna Teatro e realizzato a Modena nel maggio scorso.
Attraverso provini a cui avevano partecipato ben 535 (cinquecentotrentacinque) candidati, furono scelti sedici attori e sette drammaturghi, i quali ultimi – con l’assistenza di tre «tutor», lo stesso Latella e i suoi due drammaturghi stabili, Linda Dalisi e Federico Bellini – si fecero carico dell’adattamento delle celeberrime tragedie che giusto all’orrenda saga iniziata da Atreo si riferiscono. E ne vennero fuori otto spettacoli che, tutti con la regia di Latella, furono replicati fino al 12 giugno nel Teatro delle Passioni: «Ifigenia in Aulide» (da «Tieste» di Seneca e «Ifigenia in Aulide» di Euripide) di Francesca Merli, «Elena» (da «Le Troiane» ed «Elena» di Euripide) di Camilla Mattiuzzo, «Agamennone» (da Eschilo) di Riccardo Baudino, «Elettra» (da Euripide) di Matteo Luoni, «Oreste» (da Euripide) di Pablo Solari, «Eumenidi» (da Eschilo) di Martina Folena, «Ifigenia in Tauride» (da Euripide) di Silvia Rigon e «Crisòtemi» della stessa Linda Dalisi.
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Una scena di «Elena», uno degli otto spettacoli compresi nel progetto «Santa Estasi» (foto di Brunella Giolivo)
Qualcosa di semplicemente poderoso, ai limiti dell’eroico. E dunque si capisce perché la notizia della nomina in questione mi fa piacere, e addirittura mi commuove.
Ad Antonio Latella, per cominciare, mi lega un affetto che scaturisce dalle nostre comuni radici. Lui è nato a Castellammare di Stabia, la città in cui ho passato gran parte della vita; e la città in cui videro la luce pure quel Raffaele Viviani e quell’Annibale Ruccello dei quali, anni dopo, mi sarei occupato professionalmente, a lungo e con dedizione assoluta. E poi, mi son convinto delle doti rare che Antonio possiede in quanto regista assistendo, in pratica, a tutti i suoi spettacoli, in Italia e all’estero: da Napoli, ovviamente, a Palermo, da Milano a Narni, da Salisburgo a Berlino, da Colonia a Vienna.
Piuttosto, vorrei ricordare ancora una volta – giacché considero quella triste vicenda una fra le peggiori delle molte sconfitte subite negli ultimi anni dalla cultura e dal teatro napoletani – che Latella, tornato nel 2010 a Napoli per dirigere il Teatro Nuovo, fu costretto a dimettersi dopo meno di un anno dall’avvio del suo progetto «Auguri e figli maschi!» (sottotitolo: «Sei sguardi d’autore sul Fondamentalismo»). Un progetto – anticipava con coraggio e lucidità straordinari tanti dei drammi attuali – che non a caso Antonio definì: «Un viaggio alla ricerca di un linguaggio che traduca l’estremo urlo di chi muore per un’idea, per un Dio o per un amore».
Ecco la differenza: altrove (come, appunto, a Venezia e a Modena) si fanno i fatti, a Napoli ci si continua a masturbare guardando il proprio ombelico (leggi: perdendo il tempo a discettare sulle minuscole beghe locali tra i responsabili istituzionali di quella che definire «politica culturale» è, nella migliore delle ipotesi, un caritatevole eufemismo).
Enrico Fiore