NAPOLI – «Personaggi che senza colpa hanno saputo ottenere profitti e vantaggi offerti dal sistema capitalista e la coscienza sociale richiesta dal mondo progressista». Sono questi – così vengono definiti dal testo – i protagonisti de «La dictadura de lo cool (La dittatura del ganzo)», lo spettacolo che la compagnia cilena La Re-sentida presenta ancora oggi, al Mercadante, nell’ambito del Napoli Teatro Festival Italia. E per far capire con un esempio concreto in che modo pensano e si comportano, il testo medesimo, creazione collettiva della compagnia, spiega che «sono tutti a favore dell’istruzione pubblica, gratuita e di qualità, anche se i loro figli non varcheranno mai la soglia di una scuola pubblica».
I personaggi in questione risultano così elencati: «Un’attrice televisiva, una performer multidisciplinare, un curatore d’arte, il direttore di una Ong, un coreografo contemporaneo e un giornalista di spettacoli». Ed ovviamente costituiscono, insieme, l’emblema dei «bobos»: un termine che – c’informa il regista Marco Layera – deriva dalla «contrazione di borghesi-bohèmes»; con l’aggiunta, sempre a detta di Layera, che si tratta di un «gruppo sociale diventato ormai “classe”» e di «una categoria oggi dominante».
S’impone, dunque, una breve considerazione. Essendo il teatro un’arte eminentemente sociale, una compagnia teatrale ha il dovere di portare alla ribalta quelli che ritiene siano i problemi cruciali del proprio paese. E non v’è dubbio che, se fatto bene, il suo spettacolo potrà recare giovamento alla conoscenza dei problemi analizzati e all’azione necessaria per risolverli. Ma se poi la compagnia decide di trasferire il suo spettacolo all’estero, e per giunta di proporlo nel quadro di un Festival votato ai temi più attuali e ai linguaggi teatrali più avanzati, deve mettere nel conto che forse – nel paese in cui lo spettacolo è stato trasferito – i problemi che esso affronta non sembreranno tanto cruciali.
Infatti, qui da noi i rivoluzionari da salotto si son dileguati già da parecchi anni. Il loro posto è stato preso dai fantasmi indolenti che Paolo Sorrentino ha evocato ne «La grande bellezza», non a caso insignito dell’Oscar per il miglior film straniero. E sarebbe piuttosto difficile immaginare che uno di quei fantasmi pronunci la battuta che «La dictadura de lo cool» mette in bocca al personaggio chiamato Misantropo: «La vera lotta non è tra uomo e donna, non è tra esseri umani ed ambiente. La vera lotta è tra ricchi e poveri. La vera lotta in questo paese è la lotta di classe».
Inutile aggiungere che, per esplicita dichiarazione della Re-sentida, il personaggio che pronuncia la battuta citata sarebbe ispirato, figuriamoci, a quello omonimo di Molière. Il meno che vien da dire è che a «La dictadura de lo cool» sovrintendono (e in maniera assai confusa) una certa presunzione e un’altrettanto marcata pretestuosità. Tanto è vero che – giusto l’avviso perentorio che (sia pure in un italiano approssimativo al pari dello spagnolo che gli ha fatto scrivere nel catalogo della rassegna e nel programma di sala «dictatura» al posto di «dictadura») il Napoli Teatro Festival Italia ha diffuso al riguardo: «Si comunica al pubblico che per i temi trattati la visione dello spettacolo è consigliata ad un pubblico adulto» – la rappresentazione ammannisce in serie trovate che – anche a voler considerarle sotto specie d’iperboli sarcastiche – appaiono dubitabili tanto quanto la tesi che in Cile i «bobos» siano una «classe» e «una categoria oggi dominante».
Qualche esempio? Benito che, fra una canzone e l’altra di Victor Jara, s’incula la cagnetta Michelle e si masturba davanti alla finestra disegnando con lo sperma falce e martello, Misantropo che dice: «Mi scuso per l’attesa, stavo lucidando la capocchia del cazzo» e Pedro che mostra il culo per farselo ispezionare e dimostrare che non ha l’Aids. E meno male che ci viene risparmiata la realizzazione della didascalia: «Gli ficcano un sigaro nell’ano e ridono».
Francamente, mi sembrano solo espedienti pedestri intesi, per l’appunto, a «épater les bourgeois». Né mi pare che possano inscriversi nel «linguaggio fresco e audace» vantato da La Re-sentida la lampada stroboscopica o, soprattutto, la proiezione delle immagini riprese da una videocamera in palcoscenico, che ormai fa parte di quelle mode teatrali pigramente adottate e colpevolmente diffuse che persino un regista del calibro di Thomas Ostermeier ha sentito il bisogno di stigmatizzare nel suo recente allestimento de «Il gabbiano».
A parte qualcuna delle sequenze proiettate (specialmente quella grottesco-melodrammatica relativa alla morte della madre di Benito), non restano, insomma, che la bravura e l’impegno degl’interpreti: Carolina Palacios, Benjamín Westfall, Carolina de la Maza, Diego Acuña, Pedro Muñoz e Benjamín Cortés. Mentre, per concludere, La Re-sentida avrebbe potuto almeno evitare le strizzatine d’occhio lanciate nel prologo al «lido mappatella» e alla «festa di Dolce e Gabbana» in uno con la frecciata (anch’essa fuori tempo massimo) contro chi ha votato per Berlusconi.
Enrico Fiore