Si chiama Medea, ma somiglia al Cristo in croce

Elena Borgogni in una scena di «Verso Medea», lo spettacolo di Emma Dante presentato al Bellini

Elena Borgogni in una scena di «Verso Medea», lo spettacolo di Emma Dante presentato al Bellini

NAPOLI – L’intelligenza e il significato di «Verso Medea» – lo spettacolo che Emma Dante ha presentato al Bellini nell’ambito del Napoli Teatro Festival Italia – si dispiegano già nel titolo. Qui non c’è un ritratto o un’interpretazione di Medea, ma solo un «viaggio» che mette da parte il mito e punta alla pura dimensione esistenziale del celeberrimo personaggio. E non è detto che si tratti di un cammino che porterà alla meta (o, meglio, a una meta riconoscibile).
Infatti, Emma Dante dice che «Medea si sente straniera ovunque». E il pensiero corre subito all’interrogativo che si pone Medea al termine del romanzo di Christa Wolf: «In quale luogo, io? È pensabile un mondo, un tempo in cui io possa stare bene?». In breve, la Medea della Dante non è, nel senso che è indefinibile, incontrollabile e irrappresentabile. Come la vita, insomma.
Valga, in proposito, l’escalation che si determina nel susseguirsi dei giudizi che su di lei esprime Mariarca, una delle donne di Corinto: comincia dicendo che è «strana», prosegue gridando che è «pazza» e conclude, rivolta alle altre: «L’avite vista comme cagna di giorno in giorno?». E si spiega così, del resto, il fatto che gli uomini che interpretano quelle donne non possano esimersi dall’evocare la propria natura di maschi: la stessa Mariarca esclama: «Nun pozzo veni’, Giuseppi’, tengo ‘a uallera!», e le fa eco la Mimma che spiega: «Giuseppina mia, mi staiu facennu ‘a varva!».
Tutto si tiene, nella vita sta tutto insieme. E da qui, poi, scatta la vertiginosa fuga dell’autrice e regista palermitana, la quale, con alta invenzione poetica, finisce addirittura per assimilare Medea a quel Cristo in croce che unisce in sé le nature umana e divina. Avvicinandosi Medea all’epilogo della sua vicenda contingente, il coro – costituito dai due straordinari fratelli Mancuso, che cantano accompagnandosi con strumenti antichi come il liuto e la ghironda a bordone – le ripete, in latino e in greco, l’invocazione di cui riferisce il Vangelo di Matteo: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?».

Elena Borgogni e Salvatore D'Onofrio in un'altra scena

Elena Borgogni e Salvatore D’Onofrio in un’altra scena

Ricordate l’osservazione che – nel film di Bergman «Luci d’inverno» – il sagrestano rivolge al pastore Tomas Ericsson? Osserva, riferendosi proprio a quell’invocazione: «Gesù fu assalito da uno strazio indicibile prima di morire. Pastore, non sarà stato quello il momento in cui egli soffrì di più? Il silenzio di Dio…».
Eccolo, allora, l’unico approdo possibile di questo «viaggio verso Medea»: la constatazione della solitudine che tocca a ciascuno di noi come portato ineludibile dell’essere nati: quella solitudine che conduce all’atto estremo se diventa coscienza della propria altrettanto ineludibile diversità. Medea, in quanto «barbara», deve uccidere la sua prole esattamente come Cristo deve, per affermarsi in quanto Dio, uccidere la sua umanità.
Di qui, d’altronde, il più forte dei segni messi in campo da Emma Dante: Medea si presenta, al cospetto di quella Corinto sterile abitata solo da uomini, come ancora incinta; e non a caso, il suo parto avverrà nei termini di una rappresentazione, dietro una multicolore coperta-sipario che poi, d’incanto, si trasformerà nel neonato. Più che circostanze naturali, in definitiva, quella gravidanza e quel parto sono la traduzione di una volontà di provocare da parte della «diversa». E in proposito, sul piano dell’ipotizzabile risposta alla provocazione, si può riandare persino alle fonti, attestate soprattutto da Apollonio Rodio, secondo le quali ad uccidere i figli di Medea (per l’esattezza lapidandoli) sarebbero stati appunto gli abitanti di Corinto.

La Borgogni con Carmine Maringola

La Borgogni con Carmine Maringola

Ma, per tornare al tema del «viaggio», occorre ricordare che un percorso – stavolta all’indietro – si compie, in effetti, anche riguardo all’invocazione di Cristo citata. La versione in latino appartiene alla Vulgata, voluta dalla chiesa cattolica per assicurare la massima comprensione e diffusione al messaggio evangelico. E rimanda, perciò, all’umanità. La versione in greco appartiene alla stesura originale da parte di Matteo. E rimanda, perciò, alla storia. Mentre la versione in ebraico («Elì, Elì, lemà sabactàni?») riportata nello stesso versetto (Matteo, 27, 46)  e mutuata dal Salmo ””22 (versetto ”2) rimanda alla divinità. E del resto, non c’è un «viaggio» anche nel canto a cappella dei fratelli Mancuso che introduce lo spettacolo, con quegli stilemi siciliani che, sia pure in un altro registro, echeggiano la Sardegna del canto «a tenore»?
La solitudine di questa Medea, infine, mi fa tornare in mente la sequenza – una delle più belle e intense del cinema degli ultimi anni – con cui Emma Dante chiude il film «Via Castellana Bandiera». C’è una strada deserta, immobile e silenziosa nella quale, pochi attimi dopo, cominciano a comparire uomini, donne, bambini e cani che dal fondo corrono verso la macchina da presa, cioè verso i nostri occhi, per poi scomparire, sorpassandoci ai lati. E non possiamo non restare nell’attesa spasmodica delle apparizioni di altri di quegli uomini, di quelle donne, di quei bambini e di quei cani: sappiamo che saranno magiche proprio perché destinate a scomparire e a lasciarci di nuovo soli.
Che più? Non spreco parole sulla prova eccellente – giocata molto sulla fisicità, com’è ovvio e com’è tipico del teatro della Dante – che forniscono gl’interpreti: accanto ad Elena Borgogni, una Medea sensuale e ferina insieme, si muovono con pari efficacia Carmine Maringola (Giasone-Mariarca), Salvatore D’Onofrio (Creonte-Giuseppina), Sandro Maria Campagna (Messaggero-Caterina), Roberto Galbo (Rosetta) e Davide Celona (Mimma). Molti e convinti gli applausi.

                                                                                                                                              Enrico Fiore

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