CASTROVILLARI – Fondale bianco, pavimento bianco, una sola sedia anch’essa bianca. Potrebb’essere la stanza di un ospedale psichiatrico; e infatti la donna che compare in quella stanza – acconciata e vestita con un’eleganza e un formalismo d’altri tempi: capelli raccolti in una crocchia sulla nuca, tailleur con gonna plissettata, stola di pelliccia, stivaletti e guanti – è una persona evidentemente dissociata: vive nel presente ma non fa che riandare al passato, di cui, però, sta via via perdendo tutti i pezzi, dalle persone ai libri e ai biscotti allo zenzero. Infatti, «Non me lo ricordo più» è il leitmotiv che scandisce il suo soliloquio, rivolto a un marito, Henry, che è partito non si sa quando e per quale ragione. E l’autentica battuta-chiave – parliamo di «Ma perché non dici mai niente? Monologo», il testo di Lucia Calamaro che la compagnia Nerval Teatro ha presentato nell’ambito della XVII edizione del festival «Primavera dei Teatri» – suona, di conseguenza: «Sai, Henry, non è facile vivere in quest’eterno presente, senza movimento».
Dunque, siamo di fronte a un classico «flusso di coscienza». Ma, altrettanto evidentemente, la Calamaro non è Joyce, «Ma perché non dici mai niente? Monologo» non è un romanzo e, soprattutto, Mary, la protagonista del testo teatrale in esame, non è Molly Bloom. E partirei proprio da quest’ultima.
La Molly dell’«Ulisse» affoga nello stillicidio dell’insignificanza esistenziale: e se pure cerca di esorcizzarlo attraverso le parole, si tratta sempre di parole che strenuamente – e proprio per evitare la falsa consolazione di mascherare con i concetti (e, quindi, con l’ideologia) quell’insignificanza – s’aggrappano all’unica certezza possibile: tendono, cioè, a «tramutarsi» in cose e, in particolare, a identificarsi con il corpo e con le sue funzioni.
Inoltre – ed ecco il punto decisivo – la Molly di Joyce appartiene alla pagina scritta, mentre la Mary della Calamaro appartiene al palcoscenico. E voglio dire: se è vero che, per l’appunto, il teatro conosce solo l’opzione del presente (e quindi, in teoria, la nostra Mary dovrebbe muovercisi come il proverbiale pesce nell’acqua), poi quel presente occorre riempirlo. Deve succedere qualcosa, altrimenti le parole restano parole e si accumulano le une sulle altre senza costrutto e senza sbocco.
Insomma – per tornare al testo della Calamaro – è veramente arduo far vivere sul palcoscenico la cancellazione della memoria, e giusto perché bisognerebbe riferirsi a un passato da far rivivere qui e ora. Ciò che costituisce un problema serissimo, che non riuscì a risolvere nemmeno un signore che si chiamava Ibsen: dovette inventarsi l’espediente di processarlo, quel passato; ma si trattò, per l’appunto, di un espediente, non di una soluzione.
Tutto questo senza contare, e termino, il tipo di recitazione adottato, sotto la guida del regista Maurizio Lupinelli, dalla protagonista Elisa Pol: una recitazione abbondantemente naturalistica, di stampo accademico e che – insisto ancora una volta su un concetto che ho già espresso – c’entra assai poco con un festival votato ai «nuovi linguaggi della scena contemporanea».
Enrico Fiore