Sull’«altalena» di Lunari
senza Beckett e a tutta farsa

Da sinistra, Sergio Di Paola, Massimo De Matteo e Eduardo Tartaglia in una scena di «Tre sull'altalena»

Da sinistra, Sergio Di Paola, Massimo De Matteo e Eduardo Tartaglia in una scena di «Tre sull’altalena»

NAPOLI – In quella che sembra essere una sala d’attesa – al settimo piano di uno dei tanti palazzoni di una grande città, ma con tre porte d’ingresso a cui corrispondono tre uscite in vie diverse – s’incontrano un commendatore, un capitano dei servizi segreti e un professore: il primo è lì per un incontro galante, il secondo per trattare una partita di materiale bellico e il terzo per ritirare le bozze di un suo libro; e di conseguenza i tre sono convinti di trovarsi, rispettivamente, in una pensione compiacente, in un ufficio commerciale e in una casa editrice.
Possibile che tutti e tre i personaggi in parola abbiano avuto un indirizzo sbagliato? E chi è quell’addetto alle pulizie distintissimo, che si presenta in grisaglia, camicia e cravatta?
Sono questi, in breve, la situazione e gl’interrogativi che propone «Tre sull’altalena», la bella e fortunata commedia di Luigi Lunari ora in scena nel Piccolo Bellini. E giova, preliminarmente, ricordare che – quando venne data per la prima volta, nel luglio del 1990, al Teatro dell’Accademia dei Filodrammatici di Milano, con la regia di Silvano Piccardi – Lunari compariva nella locandina come il semplice traduttore di «Three men without a boat», un presunto testo di un presunto Alan Bond. Ed erano fin troppo evidenti le allusioni scherzose da un lato a «Tre uomini in barca» di Jerome Klapka Jerome e dall’altro all’agente «007».
Ma – se queste allusioni danno conto dell’umorismo da «conversation play» britannica che connota «Tre sull’altalena» e del pizzico di «thriller» immesso nella sua trama – lo stesso Lunari ha poi precisato che, sul piano dei contenuti, i quattro personaggi in azione incarnano altrettante maschere della Commedia dell’Arte (Pantalone, appunto il Capitano, il Dottore e lo Zanni) e, in quanto tali, rappresentano il Potere Economico, la Forza delle Armi, la Sapienza Filosofica e Razionale e il Popolo Lavoratore. Con l’aggiunta che il misterioso «uomo delle pulizie» può anche far pensare a Dio (nel qual caso il commendatore, il capitano e il professore sarebbero in realtà morti che attendono il Giudizio) o al Godot di Beckett.
Insomma, c’è molta della proverbiale carne al fuoco in questa commedia ad un tempo profonda e divertente. E un ulteriore suo pregio sta nel fatto che qui – come ancora Lunari ha sottolineato – la comicità scaturisce dall’accostamento «tra i temi fondamentali dell’esistenza e l’umana banalità dell’argomentazione» messa in campo da coloro che lui definisce «quattro ospiti involontari».
Senonché, i tre che firmano l’allestimento in scena nel Piccolo Bellini (Massimo De Matteo, Sergio Di Paola e Peppe Miale) puntano sull’intrattenimento facile: per intenderci, su un intrattenimento che ha le forme e i ritmi della farsa nostrana. Si susseguono, quindi, gag (i tre che, uno dopo l’altro, finiscono tutti in mutande…) e battute inventate tipo «Leibnitz è il portiere dell’albergo». E una simile scelta da parte di questa regia a sei mani finisce, è logico, per sviluppare lo spettacolo all’interno di una dimensione realistica, cancellando l’allusività decisiva del testo originale. Basta a dimostrarlo quell’uomo delle pulizie che si presenta proprio come un inequivocabile uomo delle pulizie.
Resta perciò a sé stante il contesto astratto determinato dalla scena di Luigi Ferrigno, con i telai delle porte e della finestra che galleggiano nel vuoto, e dalle spezzature e dalle dissonanze che tramano le musiche eseguite al violoncello da Pasquale Termini.
Per concludere, va collocata entro questi limiti la prova degl’interpreti: gli stessi Massimo De Matteo (il capitano), Sergio Di Paola (il commendatore) e Pasquale Termini (l’uomo delle pulizie) affiancati da un Eduardo Tartaglia che, nel ruolo del professore, mi sembra il migliore. È, la loro, una prova di buon livello, e comunque godibile, nel senso che suscita risate anche al di là di quelle, come si direbbe in gergo, «scritte a copione». Ma l’insieme, lo si sarà capito, parla di un’occasione sprecata o, almeno, non sfruttata a dovere.

                                                                                                                                              Enrico Fiore

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