Con Pasolini e Calderón tra i fantasmi di Velázquez

Da sinistra, Maria Laila Fernandez, Clio Cipolletta e, sullo sfondo, Anna Bonaiuto e Andrea Renzi in una scena di «Calderón» (foto di Laura Micciarelli)

Da sinistra, Maria Laila Fernandez, Clio Cipolletta e, sullo sfondo, Anna Bonaiuto e Andrea Renzi in una scena di «Calderón» (foto di Laura Micciarelli)

NAPOLI – Mentre in primo piano si svolge il dialogo smarrito e concitato fra Stella e sua sorella Rosaura, che al risveglio dice di non riconoscere il letto in cui ha dormito e la stessa Stella, che chiama «spettro», in un riquadro sul fondale scorgiamo l’immagine di Doña Lupe e di Basilio Re in posa. E quel riquadro compare, esattamente, nella stessa posizione in cui – nel celeberrimo quadro di Velázquez «Las Meninas» – compare lo specchio che riflette le immagini della regina Maria Anna d’Austria e del re Filippo IV.
Ecco, Francesco Saponaro – regista dell’allestimento del «Calderón» di Pasolini che Teatri Uniti presenta al Nuovo – piazza subito, nella sequenza d’avvio (e dunque in posizione fortemente icastica) quello che non esito a definire uno dei segni più esaustivi che abbia mai visto a teatro. Perché, nel testo di Pasolini (datato 1965, è il suo primo testo teatrale), la citazione di Velázquez e di «Las Meninas» davvero non costituisce una citazione qualsiasi.
Nel fantasmagorico labirinto di metafore e allegorie costruito da Calderón de la Barca nel suo «La vita è sogno», il testo da cui muove Pasolini, possiamo rintracciare, fra i tanti, almeno tre temi principali: l’affermazione teorica del teatro come equivalente del mondo e, quindi, della vita; il dibattito filosofico intorno alla natura e all’esercizio del potere e del libero arbitrio; e, infine, l’indagine di tipo psicanalitico relativa alla ricerca, spesso disperata, della propria identità autentica di fronte alla frantumazione (o, peggio, alla dissociazione) dell’Io. Ed è indubbio che sia stato soprattutto quest’ultimo tema ad attrarre Pasolini.

L'autoritratto di Velázquez inserito nel quadro «Las Meninas»

L’autoritratto di Velázquez inserito nel quadro «Las Meninas»

Ora, secondo Miguel Angel Asturias, nella pittura di Velázquez «gli esseri umani non sono che fantasmi, forme oniriche o sognate da loro stessi» (di qui lo «spettro» di Pasolini e le immagini di Velázquez reinventate da Saponaro). E questo attiene al tema del sogno messo in campo da Calderón. Ma in «Las Meninas» il posto assegnato ad ognuno dei vari personaggi che vi compaiono è il portato del rigido cerimoniale in uso presso la corte spagnola del tempo. E questo attiene alla vera e propria prigione che, per Pasolini, costituisce l’appartenenza a una determinata classe sociale.
In breve, la forma coincide col contenuto, giusta la convinzione dello stesso Pasolini che, con «Calderón», avesse toccato una «delle più sicure riuscite formali».
Occorre, a questo punto, ricordare che in «Calderón» si sviluppano, nell’ordine, tre sogni: nel primo Rosaura compare nelle vesti di una fanciulla aristocratica, nel secondo si presenta come una prostituta e nel terzo diventa una moglie borghese debitamente apatica. E la via di fuga da quelle tre «prigioni» potrebbe essere rappresentata nei primi due casi dall’amore e nel terzo dalla rivoluzione simboleggiata dall’irrompere degli operai, con le loro bandiere rosse, nel «lager» in cui langue Rosaura. Ma, per Pasolini, l’evasione dalla prigione della classe sociale di appartenenza è impossibile. Così è impossibile, a sua volta, anche l’amore. Rosaura scopre che Sigismondo è suo padre e che Pablo è suo figlio. E in quanto al sogno degli operai, Basilio le dirà, a conclusione del testo: «non c’è dubbio: / esso è un sogno, niente altro che un sogno».
È per questo che la Rosaura del terzo sogno «non sa più scegliere le parole» – commenta Agostina – «in una lingua così nobile, così luminosa» (che è, ovviamente, lo spagnolo, la lingua, come si dice, per parlare con Dio). E siamo, allora, alla separazione fra le parole e le cose individuata da Foucault come dato costitutivo di Don Chisciotte e, con lui, della crisi fondamentale dell’epoca moderna: ciò che Saponaro sottolinea, nel secondo sogno, con due invenzioni potenti e assolutamente pertinenti: l’opporsi del napoletano terragno di Carmen al castigliano musicalissimo di Rosaura e il fugace gesto con cui Carmen si mette sulla testa, proprio come se fosse l’«elmo» di Don Chisciotte, la bacinella in cui Rosaura, in attesa dei clienti, si lava tra le gambe ogni mattina.
Per di più, le scene di Lino Fiorito, i costumi di Ortensia De Francesco, le luci di Cesare Accetta e il suono di Daghi Rondanini corrispondono perfettamente a un tale livello d’invenzione. E straordinari sono gl’interpreti: Maria Laila Fernandez (Rosaura), Clio Cipolletta (Stella, Suora, Carmen, Agostina), Andrea Renzi (Sigismondo, Basilio), Francesco Maria Cordella (Manuel, Prete), Luigi Bignone (Pablo, Enrique) e, in video, Anna Bonaiuto (Doña Lupe, Doña Astrea).

Pier Paolo Pasolini

Pier Paolo Pasolini

Ma ciò che rende rilevante e necessario questo spettacolo, ben al di là del suo pur prezioso aspetto formale, è il fatto che mette l’accento sul problema capitale a cui si riferisce la battuta-chiave pronunciata dalla Rosaura del secondo sogno: «La chiave della porta non l’ho. / Cosa credi, che sia libera io? / E credi che se fossi libera starei qui? / La porta si può chiudere e aprire / solo dal di fuori, se vuoi saperlo».
È solo dall’esterno, ovvero dalla società, che può arrivare la soluzione. Insomma, il problema di cui dico è quello della rivoluzione. Lo stesso che ha posto, con il suo allestimento di «Morte di Danton», quel Mario Martone che, non dimentichiamolo, fu tra i fondatori di Teatri Uniti. Ho già scritto, proprio a proposito di Martone, che, per comprendere appieno un artista, bisogna considerare il suo percorso. Ed è una considerazione che vale anche per le compagnie.
Certo, abbiamo visto che Basilio dice che il sogno degli operai con le bandiere rosse «è un sogno, niente altro che un sogno». Ma è importante averlo sognato e continuare a sognarlo, altrimenti Pasolini non l’avrebbe contemplato. Perciò commuove l’invenzione finale di Francesco Saponaro, quello sfarfallìo di bandiere rosse con la falce e martello che riempie tutta la scena.
Rimanda al capolavoro di Bergman «Luci d’inverno», che credo – lo dico per l’ennesima volta – sia il film più vicino alle domande e alle angosce di oggi: in particolare, alla crisi dell’intellettuale e, in genere, di tutti coloro che hanno coscienza di sé.
Il pastore Tomas Ericsson ha perso la fede, ma continua a interrogarsi sul silenzio di Dio. E quando alla fine di una delle sue giornate stanche si ritroverà in una chiesa sperduta, una chiesa in cui i fedeli non ci sono più, di nuovo pronuncerà, anche di fronte a quei banchi vuoti, le alte ed eterne parole del rito: «Santo, santo, santo il Signore Dio degli eserciti. Benedetto colui che viene nel nome del Signore».

                                                                                                                                             Enrico Fiore

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