Quel matrimonio forzato
fra l’autarchia e l’intrattenimento
dopo il divorzio dalla ricerca

Da sinistra, Antonella Stefanucci e Alessandra Borgia in una scena di «Dalla parte di Zeno» (foto di Marco Ghidelli)

Da sinistra, Antonella Stefanucci e Alessandra Borgia in una scena di «Dalla parte di Zeno» (foto di Marco Ghidelli)

NAPOLI – I cattivi sono i famigerati politici che non smettono di allungare i loro vampireschi tentacoli sulle poltrone del Teatro Stabile di Napoli appena nominato Teatro Nazionale, i buoni sono Luca De Fusco, direttore dello Stabile di Napoli medesimo, e la sua corte di autori, registi e attori, i quali vanno svolgendo un’attività di alto profilo culturale ad onta dell’assedio condotto a loro danno (e a danno dell’intera città) dai rappresentanti dei partiti.

Valeria Parrella

Valeria Parrella

Questa, in sintesi, la tesi manicheistica che negli ultimi tempi stanno sbandierando ai quattro venti i soliti imbonitori in servizio permanente effettivo e gl’immancabili commentatori tuttologi. E tanto, naturalmente, senza dimostrare mai niente, senza scendere sul terreno concreto dei fatti, senza citare un qualsiasi spettacolo e, soprattutto, senza analizzare, sia pure sommariamente, il progetto drammaturgico dello Stabile e la programmazione che ne deriva. Provo, allora, a fornire qualche elemento di valutazione nel merito, fermo restando – è ovvio – che in nessun caso possono essere giustificate le più o meno palesi intromissioni della politica nella vita del neonato Teatro Nazionale.
Per cominciare, proprio la qualifica di Teatro Nazionale va presa con le molle. Si tratta, a parte la maggiore consistenza delle sovvenzioni elargite dallo Stato al nostro Stabile, di una questione puramente nominalistica, da inquadrare nell’ambito di una cosiddetta «riforma» della prosa di evidente ascendenza democristiana e che ormai tutti i maggiori operatori teatrali giudicano senza esitazioni (di recente l’ha fatto anche Mario Martone, in occasione di una sua venuta a Napoli) deludente e, per certi versi, addirittura dannosa.

Giovanni Ludeno

Giovanni Ludeno

Infatti, a fronte di quelle più laute sovvenzioni statali ci sono la contrazione sensibile del numero delle tournée consentite (con la conseguenza che diminuiscono le possibilità di arricchimento culturale derivanti dagli scambi) e, di pari passo, l’aumento altrettanto sensibile del numero di repliche da effettuare sul territorio di riferimento dei singoli Stabili (con la conseguenza della corsa obbligata verso cartelloni accattivanti, folti di allestimenti di largo consumo e, quindi, di minor caratura sul piano dei contenuti). Siamo, in breve, al matrimonio forzato fra l’autarchia e l’intrattenimento facile, dopo il divorzio dall’impegno e dalla ricerca.
Volete un esempio che illustri a dovere tale quadro d’insieme? Ce lo fornisce sul proverbiale piatto d’argento «Dalla parte di Zeno», lo spettacolo che lo Stabile di Napoli presenta al San Ferdinando fino a domenica. E sarà bene premettere all’esame critico dello stesso la cronaca della sua genesi desunta da un’intervista con l’autrice, Valeria Parrella, pubblicata nell’edizione napoletana de «la Repubblica» il 21 gennaio scorso.
La Parrella esordisce mettendo le mani avanti: «Scrivere questa commedia è stato, per me, un triplo salto carpiato. Mai, prima, avevo scritto commedie. Mai, prima, avevo scritto per il teatro partendo da zero. Mi ero già misurata con testi teatrali, ad esempio con l’ “Antigone”, ma lì avevo Sofocle alle spalle. Mi dovevo solo chiedere dov’era Antigone oggi, dov’era intorno a noi». E poi aggiunge: «Il testo è figlio di una committenza. Il direttore dello Stabile, Luca De Fusco, mi chiese un lavoro per la prima stagione del Teatro Nazionale. Non avrei mai potuto rifiutare. Mi lasciò totale libertà sul tema. Ma qualche paletto c’era: doveva trattarsi di una commedia per il San Ferdinando e dunque doveva avere un legame con il dialetto napoletano».

Mascia Musy

Mascia Musy

Ecco il primo problema: siccome la Parrella non sa scrivere in dialetto napoletano, ha avuto bisogno dell’intervento del professor Amedeo Messina, storico e valoroso collaboratore di Renato Carpentieri, per la trascrizione – appunto – delle parti in napoletano. E collegata al primo problema, sorge subito la prima domanda: perché Luca De Fusco, nel commissionare una commedia che «doveva avere un legame con il dialetto napoletano», si è rivolto a un’autrice che il dialetto napoletano non lo conosce o, almeno, non lo padroneggia come nella circostanza sarebbe stato auspicabile?
Perché, tanto per intenderci, il direttore dello Stabile non si è rivolto a un Manlio Santanelli o a un Enzo Moscato? Sarebbe stato tutto più semplice, non ci sarebbe stata la necessità di ricorrere a un «intermediario» e i risultati sarebbero stati senza dubbio migliori. Giacché il secondo problema, quello decisivo, è che si vede benissimo che Valeria Parrella è una narratrice alla sua prima esperienza come autrice di una commedia. Del resto, basta considerare, al riguardo, quanto dice nell’intervista citata, allorché, parlando degli attori in campo, afferma che per ciascuno di loro, tranne che per Zeno, ha «disegnato» non «un personaggio» ma «un carattere».
Si vede benissimo anche questo. Infatti, l’idea della Parrella è quella di trasformare la mente del celeberrimo antieroe di Svevo in un condominio compreso, giusto, nel Parco Zeno Cosini, e abitato, è ovvio, dalle personificazioni del disagio morale, dell’astenia degl’ideali e, in una parola, dell’inettitudine alla vita del protagonista. Ma personificazione, in teatro, non può significare che personaggio. E dal momento che la Parrella dichiara di aver abolito i personaggi, si arriva, di conseguenza, alla contraddizione di fondo che pesa su questo spettacolo.

Tonino Taiuti

Tonino Taiuti

Il testo, a un certo punto, leva un autentico inno alla verità indiscutibile e invincibile del corpo («’O cuorpo è nu cumanno, è nu suldato. ‘O cuorpo è cchello ca ce fa sèntere vive»); ed è indubbio che proprio del corpo il palcoscenico costituisca l’incontrastato e incontrastabile dominio. E allora, come si può pretendere di sostituire al corpo, sul palcoscenico, faccende quali i sentimenti, le pulsioni dell’inconscio e, peggio, le analisi filosofico-sociologiche?
È questo che, peraltro, penalizza i pur bravi attori qui impegnati, a cominciare da Giovanni Ludeno (Zeno), Tonino Taiuti (il portiere), Cristina Donadio (la moglie del portiere) e Mascia Musy (la preside). Interpretano, appunto, funzioni, non personaggi. E per giunta accade loro (e accade agli spettatori) che il testo – mentre non esita a crogiolarsi in scambi di parole tipo «a fràgola/Afragòla» o in doppi sensi tipo la battuta della figlia del portiere dopo la scossa di terremoto («Eh: mi si è aperta la crepa, se l’amministratore la vuole vedere…») – approda, poi, a ponderosissime considerazioni tipo «dove c’è la catastrofe là è la via di fuga» o «la vita è così più grande dei nostri pensieri limitati» che hanno dietro, nientemeno, Giorgio Agamben e Anna Maria Ortese. E va da sé che in simili occasioni lo spettacolo, come si direbbe in gergo teatrale, letteralmente (o, meglio, letterariamente) si siede.

Cristina Donadio

Cristina Donadio

Vedi le sequenze in cui tutti gli altri attori se ne stanno immobili in platea ad ascoltare i sermoni che pronuncia sul palcoscenico quello di loro incaricato di dar voce a ciò che legittimamente, a questo punto, possiamo considerare come il tentativo della Parrella di salvarsi l’anima (in quanto intellettuale impegnata) dopo essersi concessa la vacanza (in quanto destinataria della committenza di cui sopra) nei territori ameni delle barzellette e dei lazzi. E lo dico senz’alcun malanimo o preconcetto, poiché – tanto per capirci – ho scritto benissimo e dell’«Antigone» da lei citata e di «ASSENZA. Euridice e Orfeo», il suo testo messo in scena dal marito Davide Iodice.
D’altronde, non a caso i momenti migliori dello spettacolo ce li offrono Antonella Stefanucci (l’inquilina) e Alessandra Borgia (l’estetista): reinventando al femminile la coppia comico-spalla del varietà classico, fanno ciò che sanno fare e lo fanno in termini teatrali.

                                                                                                                                             Enrico Fiore

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