Toni e Peppe Servillo, con la tecnica e con il cuore

 

Toni e Peppe Servillo con il Solis String Quartet in un momento di «La parola canta»

Toni e Peppe Servillo con il Solis String Quartet in un momento di «La parola canta»

NAPOLI – Conoscevamo il repertorio solistico di Toni Servillo (da «Fravecature» di Viviani a «Napule» di Borrelli, da «Vincenzo De Pretore» di Eduardo a «Litoranea» di Moscato) e di suo fratello Peppe (da «Canzone appassiunata» di E.A. Mario a «Guapparia» di Bovio e Falvo, da «Te voglio bene assaje» di Ignoto a «Maruzzella» di Bonagura e Carosone). Ma non sapevamo che cosa potesse sortire dall’incontro (e, di più, dalla fusione) in scena di quei due repertori.
Ora lo sappiamo. E constatiamo che «La parola canta», l’allestimento che Teatri Uniti presenta al Bellini, va molto al di là e scende a una profondità molto maggiore rispetto a un semplice evento spettacolare.
Ovviamente, siamo di fronte a un gioco di specchi: che da un lato soddisfa l’esigenza da cui nacque l’opera lirica, quella di rendere la musica in forma drammatica, e dall’altro invera il «surrealismo demoniaco» che appunto nel melodramma individuò Giorgio Vigolo. E qui, se il termine «surrealismo» va inteso nel senso di «soprarealtà», di realtà più alta e intensa, l’aggettivo «demoniaco» rimanda al «dáimon» greco, l’essere mitico che faceva da intermediario fra l’umano e il divino.
Infatti, che cosa fanno Toni e Peppe, se non tramutare la finitezza e l’immutabilità del documento artistico in sé (il testo e lo spartito) nell’infinita variabilità della sua messinscena? È il compito di ogni attore o cantante, certo. Ma nella circostanza si arriva a un risultato ulteriore, e tanto pregnante e raffinato da fare de «La parola canta» una verifica di ciò che solo possono significare ed essere, oggi, la modernità e l’attualità. Mi riferisco ancora al surrealismo, stavolta in merito al «cadavre exquis», il «cadavere eccellente» che fu il nome della tecnica di composizione ideata, giusto, da Breton e soci: la poesia o il racconto diventavano una creazione collettiva, determinata dal fatto che ognuno dei poeti o degli scrittori che vi partecipavano aggiungeva una parola a quanto aveva scritto colui che l’aveva preceduto.
Voglio dire che oggi l’attore o il cantante non possono più essere una monade chiusa nella torre d’avorio della propria tecnica e del proprio sentimento privato: devono diventare il catalizzatore e la cartina di tornasole delle mille schegge in cui si frantumano momento dopo momento, in questo nostro tempo difficile e stimolante insieme, le convinzioni e le passioni di tutti. E questo diventano, impareggiabilmente, Toni e Peppe Servillo, assistiti al meglio dalle sapienti spezzature e dissonanze del Solis String Quartet. Basta considerare, in parallelo, il rap avvelenato in cui Toni imprigiona «Fravecature» e il ritmo lentissimo ma sanguigno che Peppe, lanciato dal fratello, dona a «Maruzzella». È un’applicazione dello straniamento brechtiano che accoppia, virtuosisticamente, la rabbia e la tenerezza.
Così, «La parola canta» piomba sul grigio stillicidio dei tanti spettacoli inutili che al presente ci toccano con la forza che lo stesso Vigolo definì il «peso del cuore». E poiché il destino del teatro è correre disperatamente verso una Forma nuova prima che (come sapeva Pirandello) arrivi la vita a distruggere quella che esso aveva appena costruito, credo di poter concludere osservando che, qui, trova un riscontro esemplare il decisivo monito di Stanislavskij: «Che il lavoro dell’attore non sia contraffazione ma creazione».

                                                                                                                                              Enrico Fiore

(«Il Mattino», 7 gennaio 2016)

Questa voce è stata pubblicata in Recensioni. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *