Seneca, il «furore» di una Fedra che somiglia a Medea

Laura Marinoni in una scena della «Fedra» di Seneca diretta da Andrea De Rosa (foto di Mario Spada)

Laura Marinoni in una scena della «Fedra» di Seneca diretta da Andrea De Rosa (foto di Mario Spada)

CESENA – Mentre al Bonci di Cesena assistevo all’allestimento della «Fedra» di Seneca, coprodotto da Emilia Romagna Teatro e dallo Stabile di Torino per la regia di Andrea De Rosa, m’è tornata in mente l’intervista che nell’aprile del 2000 feci con Carmelo Bene a proposito del suo poema «’l mal de’ fiori». Giacché De Rosa, che tre anni fa mise in scena uno «Studio sul Simposio di Platone», chiude le proprie note di regia chiedendosi, appunto con Platone: «Che cos’è l’amore, chi è Eros?»; e al riguardo Bene mi disse: «L’eros dà molto affanno. Anche nel mito è così. Dal momento che, secondo Platone, è figlio della Penuria, Eros dà dolore. Il corpo, invece, vuol essere proprio cadavere, vuol essere inerte, tornare alle cose che non sono».
Ecco perché lo spettacolo in questione desta – e non è un gioco di parole – un estremo interesse e un interesse estremo. De Rosa aggiunge a «Fedra» estratti dall’«Ippolito» di Euripide e, quel che più conta, dalle lettere dello stesso Seneca. E in una delle lettere a Lucilio (106, 5-6) Seneca afferma che i sentimenti, e dunque anche l’amore e la passione, sono «entità fisiche». Sicché mi sembra di poter dedurne che l’unico modo che ha Fedra di liberarsi dalla divorante passione per il figliastro Ippolito è giusto quello di togliere la vita al corpo che con tale passione «coincide». E allora, evidentemente, torniamo a Carmelo Bene.
D’altra parte, la più celebre delle battute pronunciate dalla Fedra di Seneca («io non voglio ciò che voglio») è un ossimoro che rimanda direttamente a quello («il tutto ch’è mai stato e poi finì») che chiude il poema di Bene. Come si può volere ciò che non si vuole? E come può finire ciò che non è mai stato? È possibile solo se il volere e l’essere si determinano nella sfera del puro desiderio irrazionale. Ed è per questo, infatti, che in «Fedra» Seneca adopera la stessa parola, «furor», per indicare sia la follia che la passione amorosa.
Ebbene, in proposito Andrea De Rosa mette in campo idee nello stesso tempo affascinanti e fondatissime: cancella il personaggio del Messo (l’«esterno»), sostituisce la Nutrice e il Coro (la saggezza proverbiale e il giudizio morale) con una Ragazza smarrita e nevrotica (l’innocenza indifesa) e, soprattutto, s’inventa una Dea che – mentre all’inizio dice, appunto: «Io sono una dea potente e posso donare la follia» – alla fine dichiara: «Io non sono una dea, io non sono niente. Non si devono levare le mani al cielo: il dio ti è vicino, è con te, è dentro di te».
Insomma, il concetto centrale trasmesso dallo spettacolo è che tutto nasce e si sviluppa nella testa di Fedra. E la riprova sta nel fatto che l’orrenda morte di Ippolito, smembrato dal mostro marino mandato da Nettuno per compiere la vendetta di Teseo, viene raccontata non da quel Messo che ora non c’è più, ma un po’ da tutti i personaggi: disposti, come «proiezioni» della sua mente, intorno a una Fedra chiusa in una scatola con le pareti di vetro e abitata da una gelida luce bianca.
Fedra, infine, trova in Laura Marinoni un’interprete formidabile, che giustamente e acutamente le attribuisce la stessa istintualità ferina che Seneca attribuì a Medea. E bravi sono anche gli altri: Luca Lazzareschi (Teseo), Anna Coppola (la Dea), Fabrizio Falco (Ippolito) e Tamara Balducci (la Ragazza). In definitiva, uno spettacolo benedetto da un’intelligenza che, con i tempi che corrono, diventa a sua volta spettacolare.

                                                                                                                                             Enrico Fiore

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2 risposte a Seneca, il «furore» di una Fedra che somiglia a Medea

  1. Giuseppina Crescenzo scrive:

    C’è chi dice la preghiera prima di andare a letto e chi legge un libro prima di concedersi ai sogni notturni. Io preferisco leggere le sue “lezioni di teatro”. Sono una fonte autentica per riflettere, il più delle volte, sul senso della vita. La sua penna è sintesi di esperienza, ricordo, pezzo di storia, riflessione e saggezza. Leggo e immagino. Dati i Km di distanza, non riesco a vedere nessuno degli spettacoli che Lei recensisce ma i suoi scritti sono sì profondi, che mi sembra di conoscerli e di averli visti tutti…
    La ringrazio, Chiar.mo Prof. Fiore.
    Un caro saluto da Weimar.
    Giuseppina

  2. Enrico Fiore scrive:

    Grazie, mia cara amica (credo di poterLa considerare tale, anche se non ho il piacere di conoscerLa di persona). E La ringrazio non tanto per i complimenti che fa a me, quanto per la considerazione in cui dimostra di tenere il teatro e l’analisi critica del teatro. Con i tempi che corrono, c’è molto bisogno di persone come Lei. Mi auguro di essere sempre capace di meritare la Sua stima e la Sua attenzione.
    Voglia gradire i miei più cordiali saluti.
    Enrico Fiore

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