Se i mobili diventano una metafora dei ricordi

Da sinistra, Massimo Popolizio e Umberto Orsini in una scena de «Il prezzo» (foto di Marco Caselli Nirmal)

Da sinistra, Massimo Popolizio e Umberto Orsini in una scena de «Il prezzo» (foto di Marco Caselli Nirmal)

NAPOLI – «Il tempo è una brutta bestia». Mi sembra che sia questa la battuta-chiave (intendo la battuta tematica) de «Il prezzo», la commedia di Arthur Miller che, datata 1968 e semisconosciuta in Italia, viene adesso proposta al Diana dalla Compagnia Orsini.
Del tempo, infatti, qui si parla spesso, non solo, per l’appunto, nelle battute, ma addirittura nelle didascalie, come in quella – collocata all’inizio, e dunque in posizione fortemente icastica – che si riferisce al «tempo che grava sulle facciate rigonfie e sulle curve dei comò messi in riga lungo le pareti».
Ebbene, che cosa produce il passare del tempo – incessantemente e proditoriamente – se non i ricordi? Ecco, allora, che i mobili lasciati dal padre ai due figli – gl’insoddisfatti Victor e Walter Franz, l’uno sergente di polizia e l’altro chirurgo, che non si vedevano da sedici anni ed ora s’incontrano, per venderli, nella stanza-deposito di uno stabile in via di demolizione – diventano la metafora di quanto affiora, nella circostanza, del non detto e del non fatto di quella lunga separazione. E chi attiva il meccanismo della risalita dall’inconscio e dal rimosso dei rancori, delle menzogne e dei tradimenti del passato è il personaggio di Gregory Solomon, il vecchissimo antiquario ebreo chiamato a far la stima del lascito: un personaggio che, perciò, si rivela a sua volta come una metafora della vita.
Si capisce, insomma, che anche nel testo in questione risalta il debito di Miller nei confronti dell’impianto tipico dei drammi di Ibsen: poiché, giusto, il vuoto del presente viene riempito col processo intentato al passato che quel presente condiziona. E, al riguardo, la regia di Massimo Popolizio appare molto attenta e precisa, a partire da quel giradischi che suona una vecchia canzone piazzato lì al proscenio, col sipario ancora chiuso: lo scarto, insieme, fra presente e passato e fra esistenza e rappresentazione. E bravissimi sono lo stesso Popolizio (Victor), Alvia Reale (Esther, la moglie di Victor) ed Elia Schilton (Walter).
Davvero una compagnia formidabile. Con un discorso a parte per Umberto Orsini nel ruolo di Gregory Solomon. La sua conclusiva danza lieve nel sordo rumore dei lavori di demolizione resterà una delle cose più belle viste a teatro negli ultimi anni. Ma c’è di più. Il suo Gregory Solomon mi fa venire in mente Shylock. E non perché, s’intende, i due personaggi sono entrambi ebrei. Gli è che da attore Orsini fa con Solomon quello che da autore Shakespeare fece con l’usuraio veneziano: disegna uno straordinario ritratto dell’uomo moderno, considerato – per ripetere le parole di Gabriele Baldini – «in tutto l’equivoco splendore d’un dio decaduto».

                                                                                                                                              Enrico Fiore

(«Il Mattino», 14 novembre 2015)

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