Una sarabanda sulla follia
che occhieggia Petito e Pirandello

 

Ruggero Cappuccio in «Spaccanapoli Times» (foto di Marco Ghidelli)

Ruggero Cappuccio in «Spaccanapoli Times» (foto di Marco Ghidelli)

NAPOLI – Il salone di un antico appartamento del centro storico. La luce elettrica c’è ancora, ma si preferisce tenerla spenta. E piove dal soffitto, da quarant’anni, anche se fuori è una bella giornata. Ed entrano gelidi spifferi. E ciascun orologio segna un tempo diverso. E il pavimento balla, in perfetta sintonia con quelle pareti fatte di bottiglie d’acqua minerale per alludere (davvero «nomen omen») alla labilità mentale dei fratelli Acquaviva: il maggiore, Giuseppe, ha convocato gli altri – Romualdo, Gabriella e Gennara – perché tutti insieme dovranno affrontare lì, nella casa della loro infanzia, lo psichiatra della Asl che verrà a confermargli o meno la pensione d’invalidità.
Questi l’ambiente e i personaggi di «Spaccanapoli Times», il nuovo testo di Ruggero Cappuccio che lo Stabile ha presentato, per la regia dell’autore, in apertura della stagione del San Ferdinando. E dunque, ci si aspetterebbe (anche stando agli echi che arrivano da «Uscita di emergenza» di Santanelli e da «L’amara scienza» di Compagnone) uno spettacolo votato alla metafora e agli slittamenti di senso, e insomma fondato sull’introspezione. Invece ci troviamo di fronte (ed è un’autentica sorpresa, data la ponderosa produzione precedente di Cappuccio) a un divertissement che – puntando su un comico spesso volto in buffo – occhieggia un po’ tutti i generi e le forme della tradizione partenopea leggera, dalla parodia petitiana alla farsa scarpettiana, passando per il varietà e la macchietta.
Tanto per fare solo un esempio, la sarabanda su «Tosca» tiene evidentemente conto del celebre modello costituito, appunto, dalla «Francesca da Rimini» di Petito. E per il resto, di conseguenza, è tutto un profluvio di gag («Émile Coué – Cu è?»), pantomime, giochi di parole («l’imposta si chiama imposta perché è contro chi fa la posta»), barzellette (lo spettatore del San Carlo che, al cospetto dell’interminabile agonia di Mimì, sbotta: «Quant’è bella ‘a morte ‘e subbeto!») e svagati nonsense (il «maggio simbolista» e la «sofferenza stereofonica»). E certo, il divertimento è assicurato, come testimoniano le molte risate alla «prima». Ma così finiscono per risultare alquanto appiccicati, e comunque neutralizzati, gli espliciti connotati pirandelliani della parte conclusiva, che pure non manca di momenti preziosi sul piano della scrittura.
Cito, in proposito, battute quali «La vita come la vogliono gli altri ci affatica» e la lezione che Giuseppe impartisce a Gennara: «Noi siamo diversi. Il nostro compito è quello di incrementare il dubbio. Se tu ti leggi tutto Shakespeare, Genna’, quello alla fine non ti risolve nessun problema. Quello ti amplifica il dolore. Ti amplifica il mistero».
Né, poi, Cappuccio sa rinunciare alle sue solite finzioni narcisistiche: «La letteratura è la mia amante. E uno un’amante non ce l’ha per farlo sapere agli altri. Uno ce l’ha per amarla in segreto. Io voglio che alla gente arrivi l’opera, che me ne importa di me che l’ho scritta? Aspettarsi l’applauso e identificarsi con il successo è un atto servile».
Fra gl’intepreti spiccano – accanto allo stesso Cappuccio, che al debutto come attore se la cava piuttosto bene nel ruolo di Giuseppe – Giovanni Esposito (Romualdo), Gea Martire (Gabriella) e Ciro Damiano (il dottor Lorenzi), da sempre particolarmente versati nel grottesco e per i quali, d’altronde, l’autore ha disposto premeditati e corposi assoli proprio al fine di propiziare un applauso, come si direbbe in gergo, «scritto a copione». Completano il cast Marina Sorrenti (una Gennara che sfodera un aggressivo dialetto siciliano) e Giulio Cancelli (un Norberto Boito simil Sciosciammocca).

                                                                                                                                             Enrico Fiore

(«Il Mattino», 6 novembre 2015)

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