Otto birre per scandire l’assenza della vita

 

Da sinistra, Andrea Renzi e Tony Laudadio in una scena di «Birre e rivelazioni»

Da sinistra, Andrea Renzi e Tony Laudadio in una scena di «Birre e rivelazioni»

NAPOLI – Come sappiamo, i greci dicevano che portiamo il nostro destino nel nome. E infatti, i due personaggi protagonisti di «Birre e rivelazioni» – il testo di Tony Laudadio che Teatri Uniti presenta nella Sala Assoli – si chiamano Marco… Marziale e Sergio… Ressa: giacché il primo è un insegnante d’italiano nelle scuole secondarie e il secondo è il proprietario di un pub.
Ma non si tratta solo di uno spunto ironico. Se il nostro destino è nel nome che portiamo, vuol dire che è qualcosa di esterno e/o di estraneo a noi. Vuol dire che ci condanna a un’assenza. E proprio l’assenza risulta essere il tema centrale e decisivo dell’atto unico di Laudadio: un’assenza che, puramente e semplicemente, s’identifica con la vita.
Non a caso, dall’inizio alla fine, e lungo otto birre, l’argomento dei discorsi fra i due personaggi è Francesco, il figlio di Sergio del quale Marco è uno degli insegnanti e che ha manifestato confuse tendenze omosessuali; e Francesco, ad onta che si parli sempre di lui, in scena non compare mai. Così come è «ipotetica», dice Marco, la nostalgia che Sergio prova per Simon & Garfunkel, che non ha mai sentito dal vivo, e così come allo stesso Sergio riesce di suonare la chitarra – in un pub! – «solo quando se ne vanno tutti».
Debbo aggiungere che, però, siamo di fronte a un testo che cammina a due velocità: corre quando s’attiene alla metafora e al simbolo, mentre zoppica quando si sposta sul terreno dell’analisi psico-sociologica. Stridono troppo, per esempio, i passi che evocano un vittimismo gay ormai abbondantemente superato e, soprattutto, la mozione dei sentimenti («Ora cerco solo amore, senza indietreggiare mai») piazzata a mo’ di finale consolatorio.
D’altronde, la regia, firmata dallo stesso autore, s’attesta fondamentalmente sul piano di un inequivocabile e preponderante bozzetto realistico, a partire dalle proverbiali cadenze dialettali – quelle lombarde e quelle romanesche – attribuite rispettivamente a Marco e a Sergio. E sarà per questo (o anche per questo) che le prove degli interpreti – ancora Tony Laudadio (Marco) e Andrea Renzi (Sergio) – sortiscono in prevalenza effetti comici.
Tanto, almeno, è accaduto alla «prima»: punteggiata per tutta la durata dello spettacolo, un’ora o poco più, da risate che arrivavano pure nei momenti e sulle battute che avrebbero dovuto dar luogo ad esiti diversi.

                                                                                                                                            Enrico Fiore

(«Il Mattino», 23 ottobre 2015)

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