Ficarra e Picone dall’inferno al paradiso

 

Ficarra e Picone in «Apriti cielo»

Ficarra e Picone in «Apriti cielo»

NAPOLI – Confesso che ho un gran debole per gli attori siciliani. Loro e quelli napoletani costituiscono le due principali scuole di recitazione d’Italia. E mi vedo in televisione le storie di Montalbano per vedere, appunto, gli attori siciliani che vi prendono parte, dalla sanguigna Guja Jelo al Marcello Perracchio che ha fatto del dottor Pasquano un cammeo da antologia.
Ebbene, questa mia predilezione s’è confermata anche vedendo lo spettacolo di Ficarra e Picone, «Apriti cielo», che ha dato il via alla stagione del Diana. Certo, qui abbiamo un impianto da sit-com televisiva, che innesca una comicità leggera tramata di battute tipo: «Prima un Papa polacco, poi un Papa tedesco, adesso un Papa argentino… non c’è che dire, certi mestieri gli italiani proprio non li vogliono più fare». E tuttavia, sia pure a tratti, la scuola di cui sopra continua a brillare.
Il testo dà luogo a tre quadri: nel primo Salvo Picarra e Valentino Picone sono nei panni di due tecnici che dovrebbero riparare un televisore ma trovano ammazzato il padrone di casa e finiscono per uccidersi a vicenda con la stessa pistola che ha ucciso lui; nel secondo si calano nei ruoli del parroco e del chierico che hanno officiato il rito funebre per il predetto padrone di casa; e nel terzo, tornati nei panni dei due tecnici, affrontano il tormento di dover rispondere ai quiz per l’ammissione in paradiso.
Ovviamente, Ficarra e Picone ci mettono soprattutto la loro straripante simpatia e il collaudato gioco di coppia che li ha resi popolari: un gioco di coppia che rimanda, certo, al comico e alla «spalla» dell’avanspettacolo e del varietà, ma prima ancora al clown Bianco (quello autoritario) e al clown Augusto (per definizione «l’uomo che prende gli schiaffi») del circo. Ed è superfluo specificare che, nella circostanza, la parte del Bianco tocca a un furbo e supponente Salvo e quella dell’Augusto a un ingenuo e remissivo Valentino.
Rispetto all’interpretazione di queste due parti, la scuola attorale siciliana si manifesta attraverso le citazioni della velocità vertiginosa del «cunto» e della meccanicità allusiva dell’Opera dei Pupi. E così, Ficarra e Picone occhieggiano da un lato Franco Franchi e Ciccio Ingrassia e dall’altro gli stratosferici Tuccio Musumeci e Pippo Pattavina. Chi ha visto, di Musumeci e Pattavina, lo sketch «’U purtau ‘u pani, papà?» (lo scontro fra un regista pretenzioso e l’attore smarrito che deve pronunciare quella battuta) sa di che cosa sto parlando.

                                                                                                                                              Enrico Fiore

(«Il Mattino», 18 ottobre 2015)

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