Quel piatto di spaghetti mangiati solo col cucchiaio

Claudio Ascoli ad Aversa  in un momento di «C'era una volta... il manicomio»

Claudio Ascoli ad Aversa in un momento di «C’era una volta… il manicomio»

AVERSA – Nel filmino sbiadito e traballante le larve umane che un tempo furono rinchiuse in quell’inferno: più terribile di un lager perché non riconducibile a un sia pur perverso disegno razzistico o politico, ma solo alla cecità assoluta verso la sofferenza dei malati. E questo è stato il primo merito di «C’era una volta… il manicomio», la passeggiata teatrale organizzata da Chille de la Balanza nell’ex ospedale psichiatrico «Santa Maria Maddalena» di Aversa.
Agli spettatori, voglio dire, non veniva ammannito il solito balletto delle parole, ma veniva sbattuto in faccia il dato di fatto incontrovertibile costituito dalle immagini. E il secondo merito è stato che, subito dopo, quegli spettatori (ne sono arrivati il triplo rispetto ai quaranta previsti) si vedevano letteralmente trascinati dentro il dato di fatto comunicato dal film: Claudio Ascoli, autentico Virgilio di tal viaggio nella «selva oscura» della follia, insegnava loro come si legavano i matti sulle sedie, oppure, con l’assistenza di Sissi Abbondanza, gli offriva un piatto di spaghetti che dovevano mangiare – appunto come i matti, ai quali erano vietati forchette e coltelli – solo col cucchiaio.

La chiesa in rovina dell'ex manicomio di Aversa

La chiesa in rovina dell’ex manicomio di Aversa

Ma poi, chi erano i matti del manicomio di Aversa, che – istituito l’11 marzo del 1813 da Gioacchino Murat – risulta il più antico d’Italia? C’era fra loro, per esempio, quel Felice Persio che salutò gl’illustri psichiatri lì arrivati per il secondo Congresso Freniatrico, nel settembre del 1877, con la seguente sestina: «Egli ha una mente, ma pensier no’l scuote, / Egli ha il suo sguardo, e il bello, il ben, non vede, / Egli ha il suo labbro, e ragionar non puote, / Egli ha il suo core, ma non ama o crede; / Egli è morto, ma è vivo al suo dolore, / Egli è vivo, ma è morto ad ogni onore».
Già, il «matto» che spiegava chi è il «matto» ai professoroni incaricati di curarlo. E quelli giù a prendere appunti mentre lui declamava, c’era davvero del metodo nella sua follia. E infine, nell’eco dei versi di Persio, la passeggiata – sotto la pioggia che imperversava ieri sera – lungo i viali disastrati dell’ex manicomio, il buio appena forato dai cellulari e l’abbaiare iroso dei cani. Fino a un locale restaurato alla men peggio dall’associazione di giovani che, non a caso, s’è chiamata «Don Chisciotte».
La chiusura, emozionante, con gli spettatori disposti in cerchio a leggere i versi dei ricoverati. Uno diceva: «Vorrei pensare che non ho esigenze strane, / ma ho solo una gran voglia di fare / per questo io vi canto una canzone, / sperando che mi stiate ad ascoltare. / E non venite a dirmi che sono cazzate, / perché son bombe atomiche disinnescate / dentro di me»; e un altro, più semplicemente: «Avrei voluto le cose che avete avuto voi».

Una ricoverata nell'ex manicomio di Gorizia (foto di Carla Cerati)

Una ricoverata nell’ex manicomio di Gorizia (foto di Carla Cerati)

Al termine della lettura, ciascuno degli spettatori ha stretto forte le mani dei suoi vicini. E così, quel cerchio è diventato, simbolicamente, il messaggio profondo trasmesso da Chille de la Balanza: la situazione odierna, purtroppo, non appare diversa, poiché, se è stato eliminato il manicomio, non è stato eliminato ciò che stava dietro il manicomio. Scontiamo, tutti, la stessa condizione che fu degli ex matti. I meccanismi di potere insiti nella società capitalistica ci privano del nostro «status» di persone e, dunque, della possibilità di stabilire un contatto vero e proficuo con gli altri. Siamo dei semplici numeri su un cartellino, appunto com’erano i ricoverati negli ospedali psichiatrici.
Infine, a me personalmente è capitata una cosa che ha dell’incredibile. Quelli di «Don Chisciotte» avevano accumulato alla rinfusa su un tavolino, in una stanza all’oscuro (ovviamente, all’ex manicomio di Aversa la luce elettrica è stata tagliata), dei fogli con la fotografia e il nome e cognome di alcuni dei pazienti del passato, fogli che erano piegati in modo che non se ne potesse vedere il contenuto. Ebbene, ho pescato nell’oscurità il foglio con la fotografia e il nome e cognome di Bobò, del quale avevo parlato nell’articolo di presentazione di «C’era una volta… il manicomio» pubblicato da «Il Mattino» martedì scorso.
Ho appreso, quindi, che in un’epoca lontanissima Bobò si chiamò Vincenzo Cannavacciuolo. Ed ecco, allora, il miracolo, quasi una magia, compiuto da Chille de la Balanza. Colui ch’era diventato solo un soprannome è tornato ad essere una persona.

                                                                                                                                              Enrico Fiore

(«Il Mattino», 16 ottobre 2015)

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