Mario Merola appeso alla fune di Tarzan

 

Mimmo Borrelli in un momento di «Napucalisse» (foto di Gennaro Cimmino)

Mimmo Borrelli in un momento di «Napucalisse» (foto di Gennaro Cimmino)

BACOLI – «Napucalisse» – il testo di Mimmo Borrelli che ha aperto nel Parco Cerillo di Bacoli la prima edizione di «Efestoval», l’itinerante «Festival dei Vulcani» che, da lui ideato e diretto, si svolgerà nei Campi Flegrei fino al 26 settembre – esprime già nel titolo la sua sottile strategia e il pregio decisivo che ne discende. Quel titolo, ovviamente, fonde le parole «Napule» e «apucalisse». Ma se qualcuno pensa al solito luogo comune da piagnisteo, ecco che poi si trova di fronte a una drammaturgia che dice tutt’altro: e questo attiene, per l’appunto, alla strategia, che è quella dello spiazzamento programmatico; mentre il pregio consiste nella capacità di trovare proprio nel luogo comune lo spunto per una svolta «eccentrica».
Si tratta di un dialogo su Napoli fra tre personaggi a vario titolo emblematici: «Il Vecchio Saggio/Cinello» (ovvero, nelle vesti di Pulcinella, il tipico intellettuale nostrano supponente e accidioso insieme), «L’Assassino ‘i Cartone» (ovvero il qualunquista impietoso e omertoso) e il Vesuvio (ovvero il giudice inflessibile e lungimirante costituito dalla coscienza). E il testo, dunque, oscilla fra la necessità di coltivare la memoria, unica garanzia per il domani, e la consapevolezza che quella memoria deve radicarsi nel presente, senza diventare l’alibi per una sterile nostalgia.

Annibale Ruccello ne «Le cinque rose di Jennifer»

Annibale Ruccello ne «Le cinque rose di Jennifer»

Di conseguenza, se di modelli eccellenti bisogna parlare, Borrelli parte da Ruccello (il passo: «Ma chi non ha più memoria nun tene / cchiù futuro» è un’evidente riscrittura della battuta di «Ferdinando» che suona: «Chi nun tene ricorde… Nun tene manco futuro») per approdare a Viviani (l’affermazione conclusiva: «Dio sono le mie mani» richiama altrettanto evidentemente i versi «Ce avimm’ ‘a sulleva’ / cu ‘e braccia noste!» de «I dieci Comandamenti»).
Tale insieme, si capisce, non poteva che manifestarsi ed esaltarsi attraverso il furore iconoclasta che connota la straordinaria scrittura del drammaturgo flegreo: un autentico e vertiginoso fuoco d’artificio che mescola – ad un tempo con lucida sapienza e poetico abbandono – le iperboli surreali e le più logore filacce della cronaca, il parossismo dell’indignazione civile e la sonnolenza delle frasi fatte, l’anarchia dell’immaginario e la disciplina dell’analisi sociologica. E il risultato, si capisce anche questo, è che convivono il comico e il tragico, e l’uno si rovescia incessantemente nell’altro.
Vedi, per fare un esempio relativo alla dimensione della comicità, la sequenza ferocemente parodistica, da perfetto film-sceneggiata, del matrimonio di un camorrista: si va da «Mario Merola ca scenne ‘a coppe ‘a luna, / ‘a n’elicottero r’ ‘a finanza, cu na funa / alla Tarzànn» alla «bufala che caglia muzzarelle / direttamente sane ‘a ‘int’ ‘i mammelle», passando per «ll’anielle squadrate c’ ‘u flexe». Fino alla nota, tremenda litania (era compresa anche nello spettacolo «Toni Servillo legge Napoli») che spreme letteralmente sangue da tutto il rosario delle voci sull’antica e dolorante e bestemmiante e fornicante Partenope.

Raffaele Viviani

Raffaele Viviani

Infine, la prova di Mimmo Borrelli attore, adeguatamente accompagnato dalle musiche dal vivo di Antonio Della Ragione, può essere definita proprio sulla base del paragone con Servillo: mentre quest’ultimo faceva dell’interpretazione della litania citata (il testo, tutto in versi a rima alternata o baciata, la intitola non a caso «Lava») un virtuosistico esercizio di stile, Borrelli, puramente e semplicemente, diventa quella lava, bruciando in essa ogni lenocinio del recitare.
Concludo osservando che proprio perché è senza pietà e non contempla alcuna illusione la litania in parola può permettersi il disperato orgoglio della penultima quartina («Napule: venitece vuje. / Napule: a campa’ ccà. / Napule: nun me ne fuje. / Napule: je schiatto ccà») e, per contro, i carezzevoli ossimori dell’ultima («Napule ‘int’a ll’anema. / Napule tumore. / Napule senz’anema. / Napule r’ammore»).
Sarà forse per questo che l’altra sera, contemplando l’incomparabile panorama del mare e del lago Miseno che faceva da sfondo allo spettacolo di Mimmo Borrelli, ho ripensato per l’appunto a Viviani, a quel Viviani che amò Napoli proprio a partire dalla coscienza della malattia che da sempre la consuma. E ancora una volta m’è tornato in mente quanto si racconta intorno alla sua morte. Tacque per dodici ore e poi, un attimo prima di spirare, gridò: «Arapite ‘a fenesta, faciteme vede’ Napule!».

                                                                                                                                             Enrico Fiore

(«Il Mattino», 8 settembre 2015)

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