La felicità di Nora è la parola felicità

Sophia Hill in un momento di «Nora», lo spettacolo di Theodoros Terzopoulos tratto da «Casa di bambola»
(le foto che illustrano questo articolo sono di Johanna Weber)

MILANO – «Ah, sì, sì! Come è splendido vivere ed esser felici!». È questa, come sappiamo, l’esclamazione con cui, in «Casa di bambola» di Ibsen, Nora manifesta, fanciullescamente, il suo svagato entusiasmo per l’essere al mondo. Ma si tratta, sappiamo anche questo, solo di un desiderio. Poiché in effetti – se è vero che lungo l’intero arco dei tre atti di quel dramma la vita viene continuamente evocata (all’esclamazione di Nora s’affiancano il «Bisogna vivere» della signora Linde e la battuta del dottor Rank: «Già, è opinione molto diffusa che vivere sia necessario») – nella realtà accade che al posto della vita s’accampa un presente che, per ripetere le parole di Peter Szondi, «si limita a essere un pretesto per l’evocazione del passato».
Ancora una volta, dunque, nel parlare di «Casa di bambola» è opportuno rifarsi alle insuperabili analisi dello studioso ungherese: «In Ibsen il problema è quello di rappresentare il passato, vissuto interiormente, in una forma letteraria che conosce l’interiorità solo nella sua oggettivazione, e il tempo solo nel suo momento di volta in volta presente; ed egli lo risolve inventando situazioni in cui gli uomini seggono a giudici del loro passato ricordato, e lo portano così alla luce aperta del presente».
Si capisce, quindi, che in un quadro del genere il futuro stesso si riduce a un’esangue aspirazione: poiché resta affidato all’improbabile ipotesi del «meraviglioso», di un «prodigio» – nella fattispecie «la convivenza che diventa matrimonio» – in cui, del resto, non si crede più.
Ripeto, allora, quel che già in altre occasioni ho avuto modo di sostenere. Nel mettere in scena «Casa di bambola» occorre non solo cancellare l’eclatante naturalismo che in Ibsen traduce la crisi storica del dramma in quanto portato della crisi della borghesia, ma, anche e soprattutto, bandire qualsiasi lettura in chiave razionalista e, peggio, femminista del personaggio di Nora. E questo fece un signore che si chiamava Ingmar Bergman: il quale era un grandissimo regista che, in ragione di «affinità elettive» operanti da sempre (basta considerare «Il posto delle fragole»), conosceva Ibsen meglio di se stesso.
Dal canto suo, Theodoros Terzopoulos ha proposto al Teatro Grassi – nell’ambito di «Presente indicativo: per Giorgio Strehler (paesaggi teatrali)», il festival organizzato dal Piccolo per celebrare il settantacinquesimo anniversario della sua fondazione – un allestimento di «Casa di bambola» molto personale (firma, insieme, la traduzione del testo originale, l’adattamento, la regia e le scene) che, chiamandosi semplicemente ma non a caso «Nora», perviene allo stesso risultato attraverso la sottolineatura per contrasto.
Tanto per cominciare, la citata esclamazione di Nora qui si dilata a dismisura: «Meraviglia. Così felice. Sono felice. Mio marito è felice. I miei bambini sono felici. Tutti sono felici. Ivar è felice. Anche Emmy è felice. Anche Bob è felice. Così felici. Siamo felici. Io sono felice. Tu sei felice. È Natale. Siamo felici». Ci troviamo di fronte, come si vede, a un’autentica ubriacatura, che sostituisce alla felicità la parola felicità.
Nora, in effetti, affoga, all’opposto, in un’infelicità che trova il suo terreno di coltura nell’assenza di sentimenti veri e di rapporti interpersonali fecondi. La spia d’allarme di una simile condizione sta nella sua spinta compulsiva a spendere soldi per acquistare quante più cose è possibile. E anche questo Terzopoulos sottolinea con determinazione.
Nel testo di Ibsen gli acquisti che Nora mostra a Helmer sono: «un vestito per Ivar… e una sciabola», «un cavallo e una trombetta per Bob», «una bambola col suo lettino per Emmy» e «tagli di stoffa e fazzoletti per le donne». Nell’adattamento di Terzopoulos, invece, Nora mostra a Helmer, fra l’altro: «braccialetti d’oro e scarpette rosse per la bambola di Emmy», «un dopobarba e un bagnoschiuma per Torvald», «shampoo per me», «balsamo per me», «crema corpo per me», «crema viso per me», «crema per il contorno occhi per me», «crema da giorno per me», «crema da notte per me», «crema BB per me», «correttore per me», «mascara per me», «ombretto per me», «eyeliner per me», «rossetto per me», «botox per me», «vaccino per me».

Da sinistra, Tasos Dimas, Sophia Hill e Antonis Myriagkos in un altro momento dello spettacolo

L’elenco si conclude con la frase: «Tutto per me… per me, per me, per me», a cui si aggiungono le parole «miracolo» e «meraviglia». Sono le parole che, peraltro, sentiamo non so quante volte, dall’inizio alla fine. E due cose, allora, risultano oltremodo evidenti: la solitudine di Nora, che si traduce in un irrimediabile solipsismo, e lo strenuo ridursi delle sue ambizioni e dei suoi bisogni al corpo, che a lei sembra l’unica certezza che le rimanga e, in quanto tale, merita ogni cura e abbellimento.
A monte, poi, Terzopoulos illustra il problema-cardine messo sul tappeto da Ibsen anche attraverso il procedimento opposto, sottraendo invece che aumentando: riduce i personaggi che attorniano Nora al marito Torvald, il burocrate che l’ha sempre considerata e trattata, per l’appunto, come una bambola e che quindi rappresenta il vuoto del presente, e a Krogstad, che la ricatta per la falsificazione della firma del padre sulla ricevuta di un prestito datagli da lei e che, perciò, rappresenta il passato da processare.
Ora, venendo allo spettacolo in sé, constato che si attesta – coerentemente con tutto quanto sopra – sul versante della fisicità: una fisicità nello stesso tempo determinata e smarrita, plateale e sfuggente, onnivora e anoressica. E tanto imperversare di ossimori si deve al fatto che il corpo è una certezza solo, per l’appunto, agli occhi di Nora. Nella realtà è appena un’attesa.
Questa l’idea strepitosa che trasmette Terzopoulos. Ed è nello sviluppo di quest’idea che si manifestano le invenzioni migliori della sua regia. Vedi, tanto per cominciare, le dita di Krogstad che sbucano dall’interstizio fra due dei pannelli, affiancati e girevoli su se stessi, che costituiscono una sorta di sipario interno: sono l’annunciarsi del corpo, d’accordo; ma ben presto vedremo che quel corpo, invece che una certezza, incarna solo un’ambiguità. Krogstad emette di continuo delle risatine che si tramutano in singulti e i baci che a lungo deposita sulla gamba di Nora sembrano piuttosto dei morsi.
Non a caso, poi, insisto su Krogstad. La sua presenza risulta pressoché ininterrotta, e spesso si cristallizza in pose: dal momento, è ovvio, che lui rappresenta, come abbiamo detto, il passato che incombe e non si può modificare. Proprio Krogstad, del resto, pronuncia ad intervalli più o meno regolari il più prepotente degli ossimori: «Infernum continuum – Miracolo». E ciò fa il paio con l’irruzione reiterata di «Sul bel Danubio blu». Uno sberleffo crudele piove così su quella palude d’incomprensione e impotenza: come potrebbero ballare un valzer la Nora e il Torvald che invano cercano di abbracciarsi, poiché schiacciati entrambi sulle facce opposte del pannello che li separa?

Ancora la strepitosa Sophia Hill nei panni del celeberrimo personaggio di Ibsen

Infine, gl’interpreti. È raro, assai raro imbattersi in un cast di questo livello: Sophia Hill (Nora), Tasos Dimas (Krogstad) e Antonis Myriagkos (Torvald) sono assolutamente impareggiabili. E commuove, alla fine, il fatto che nel montare degli applausi del pubblico a loro volta applaudano il maestro, Theodoros Terzopoulos, salito sul palcoscenico per applaudirli anche lui. È lo scambio d’affetto e di riconoscenza reciproca, esso stesso rarissimo, che sempre dovrebbe verificarsi fra i partecipanti a una comune creazione artistica.
Ma ciò che di questo spettacolo rimarrà nella mente e nel cuore è soprattutto la sequenza finale. L’inenarrabile Sophia Hill scende sul proscenio e a poco a poco, con movimenti quasi impercettibili, sparisce fra le piume del suo abito, fino a diventare una massa informe: è, certo, la Nora che, avendo lasciato il marito, s’addormenta nella raggiunta libertà proprio come farebbe una lodoletta (così, lo sappiamo, la chiamava Torvald) col capo sotto le ali; però è anche, e specialmente, l’attrice che si libera del personaggio per ridiventare donna, è anche, e specialmente, il personaggio che muore a se stesso per trasformarsi, fuori dal teatro, in un soffio leggero nella vita e nel mondo.

Enrico Fiore

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