Martone: «Ritroviamo lo spirito di rivolta»

Elio Germano, nei panni di Leopardi, in una scena del film di Mario Martone «Il giovane favoloso»

Elio Germano, nei panni di Leopardi, in una scena del film di Mario Martone «Il giovane favoloso»

Riporto l’intervista con Mario Martone pubblicata ieri dal «Corriere del Mezzogiorno».

Parlo con Mario Martone delle ipotesi circa il teatro che verrà quando il coronavirus sarà stato sconfitto. Nella discussione pubblica al riguardo ci sono state molte approssimazioni e altrettante omissioni. E Martone è la persona adatta a fare chiarezza e suggerire prospettive: per la sua lucidità creativa, la tensione perenne verso il nuovo e la coerenza ideale e culturale del proprio percorso.
– In questi mesi si è spesso detto, e ripetuto fino alla noia, che niente sarà più come prima. E tu fosti uno dei protagonisti della stagione decisiva, alla fine degli anni Settanta, in cui davvero, nel teatro della «post-avanguardia», niente fu più come prima. Si perseguì e si realizzò la riduzione al grado zero della drammaturgia, sostituendo la parola con l’analisi scientifica degli elementi costitutivi dell’evento teatrale: lo spazio, il tempo, la luce. Fatte le debite differenze, quale ritieni che possa essere la lezione di quel tempo applicabile anche oggi?
«Ho cominciato negli anni in cui Simone Carella intitolava la stagione del suo Beat 72, tempio del teatro off romano, “La nascita del teatro”. È detto tutto: si voleva ripartire da capo. Avevo diciassette anni, il teatro che mi era capitato di vedere con la scuola non aveva nessun interesse per me, mentre ero attratto da ogni sperimentazione artistica, musicale, cinematografica. Ma non dimentichiamo che erano anni di rivolta, le questioni sociali e politiche erano del tutto intrecciate a quelle artistiche. Il nuovo cinema americano, come quello tedesco, a cui guardavamo con passione, erano intrisi di questo rapporto. Nelle mani del ragazzo che ero il teatro poté diventare il lancio di un aeroplanino sulle teste degli spettatori in un parco. O l’emissione di un montaggio sonoro affidato a una radio libera che dialogava simultaneamente con l’azione scenica che creavo in una galleria d’arte. Addirittura, e lo ricorderai perché ne fosti complice e coprotagonista, l’affidamento di un’azione alle pagine di un giornale, dove il teatro nasceva dalla sola lettura di quell’articolo da parte dei lettori/spettatori. Si direbbero oggi esperimenti di distanziamento. La differenza è che allora ci si distanziava per aprire gli spazi e fare largo all’immaginazione, mentre il rituale del distanziamento imposto dal contagio appare per ora piuttosto lugubre. Il punto è che è stato molto attutito qualsiasi spirito di rivolta, ossia di creatività, nella nostra società. È questo spirito che va ritrovato perché la vita durante l’emergenza sanitaria possa arricchirsi di stimoli. E, attenzione, rivolta non significa violenza. I ragazzi che si battono per l’ambiente, rivoltandosi contro un potere che sta distruggendo il pianeta, non sono violenti. La rivolta è nulla senza senso di realtà e di responsabilità. Ma è nulla anche senza l’immaginazione. I mesi prossimi saranno un banco di prova. Tanto per chiarire, rivoltarsi non vuol dire fottersene irresponsabilmente del pericolo di contagio provocato dagli assembramenti o assaltare i politici con l’odio via internet. Quello di Carola Rackete è un esempio di rivolta, perché compiuto attraverso una totale assunzione di responsabilità».

Mario Martone

Mario Martone

– Nel maggio del 1998 accompagnai in Montenegro Igina Di Napoli, che a Podgorica, la capitale, presentò nell’ambito del FIAT, il Festival Internazionale di Alternative Teatrali, due spettacoli di Pippo Delbono, «Il tempo degli assassini» e «Barboni», prodotti dal suo Nuovo Teatro Nuovo. E ci portarono, orgogliosi, a vedere il Teatro Nazionale appena ricostruito dopo l’incendio che l’aveva distrutto otto anni prima. Un’autentica meraviglia tecnologica. Ma io, che avevo saputo che a Podgorica mancava l’ospedale, subito apostrofai il direttore con malcelato fastidio: «Non era meglio pensare prima ai malati?». Quello mi guardò come se fossi il proverbiale marziano. E valga l’episodio a ribadire ciò che ancora una volta è emerso dalla discussione di cui sopra: che, cioè, il teatro s’è ridotto ad essere l’espressione di un piccolo mondo autoreferenziale che s’illude d’essere un grande mondo, anzi il mondo tout court. Non pensi che sia ora, per i teatranti, di guardare un po’ oltre il proprio ombelico?
«È molto vero, in tanti casi. Ma, a proposito di rivolte, ci sono anche teatranti capaci di battaglie, e non solo estetiche. Qualche giorno fa a Tirana agenti in tenuta antisommossa hanno sgomberato violentemente lo storico teatro Kombetar occupato dagli artisti che lo difendevano. È stato abbattuto per costruirne uno nuovo, che finirà per essere un centro commerciale con annessa sala teatrale. Pura speculazione edilizia, altro che ospedali! Comunque, certo, il teatro va ossigenato con la realtà perché sia vivo. Per me è rimasta un’esigenza costante, anche se il mio lavoro ha avuto tante evoluzioni diverse nel corso del tempo. “Il sindaco del rione Sanità” realizzato con gli attori del Nest ne è un esempio evidente, ma a suo modo anche il lungo lavoro su Leopardi tra cinema e teatro lo è stato. Ho interrogato Leopardi per interrogare la nostra realtà, ad esempio nel rapporto con la natura, e non sono poche le risposte che oggi illuminano quanto sta accadendo».
– A Napoli veniamo da dieci anni di teatro che definire vecchio, sotto il profilo dell’impostazione, è un generosissimo eufemismo. Ma quanto, al di là delle responsabilità dei singoli, hanno influito su quell’impasse gli effetti deleteri della famigerata «riforma» che ha portato alla nascita degli Stabili Nazionali, con la conseguenza del prevalere dello spettacolo sul teatro? Parlo del teatro vero. È rimasto solo il teatro votato sostanzialmente al successo e al consenso preventivi e, quindi, al drastico ridimensionamento della ricerca e, con ciò, della riflessione in ordine all’imprescindibile ruolo che il teatro deve svolgere per favorire la crescita morale e «politica» della società.
«È una legge figlia dello spirito del tempo. Come l’Alta Velocità, che ha favorito lo sviluppo delle tratte principali mettendo in affanno la rete ferroviaria diffusa sul territorio, anche questa riforma considera ciò che è minoritario alla stregua di rami secchi, da tagliare. È modellata sullo stampo dei teatri nazionali tedeschi o francesi, basati da sempre su ensemble di attori stabili e su un pubblico che affolla le sale per rivedere lo stesso spettacolo in repertorio per anni e anni. Ma nell’Italia dei mille comuni, dei mille teatri e della commedia dell’arte, questo produce uno snaturamento. Non mancano nella riforma anche strumenti utili, intendiamoci, ma molto dipende dalle scelte di chi dirige i teatri. Detto questo, qualcosa di nuovo nasce indipendentemente da qualsiasi legge, nasce dalla voglia e dalla capacità degli artisti di cambiare le cose. Lo strumento è il palcoscenico. Il periodo in cui ci troviamo, con tutte le sue difficoltà, paradossalmente costringerà i teatri a riorganizzare la propria azione. È qui che bisogna incunearsi. E a Napoli esempi di forte creatività per fortuna non mancano».

Da sinistra, Massimiliano Gallo, Francesco Di Leva e   Giovanni Ludeno in un momento de «Il sindaco del Rione Sanità» di Martone (la foto è di Mario Spada)

Da sinistra, Massimiliano Gallo, Francesco Di Leva e Giovanni Ludeno ne «Il sindaco del Rione Sanità» di Martone
(la foto è di Mario Spada)

– Per riassumere, che tipo di drammaturgia pensi che i teatranti debbano sforzarsi di mettere in campo per affrontare in qualche modo (se non per risolvere, che sarebbe pretendere troppo) i problemi tremendi che ci troviamo davanti? Non ti sembra che occorra una buona volta uscire dalla mistica del teatro, quella che ha fatto dire a un noto autore e regista napoletano che la parola di Shakespeare è più forte di qualsiasi distanziamento sociale imposto agli attori che recitano «Romeo e Giulietta»?
«Le scritture che amiamo, in letteratura, in teatro, al cinema, non nascono coltivando il giardino dell’arte né volendolo estirpare. Nascono fuori da quel giardino, dall’urgenza che chi scrive prova dentro di sé. Conoscono, ovviamente, l’esistenza del giardino, vi approdano, a volte lo arricchiscono, a volte lo deturpano, ma comunque nulla nasce senza uno sguardo rivolto dentro di sé e un altro rivolto al mondo, alla realtà. Di questi tempi mi viene spesso in mente il teatro di Antonio Neiwiller. Un’esperienza umana, questo era il teatro di Antonio, che solo in seconda battuta, e solo a volerla cercare perché faceva di tutto per nascondersi, era un’esperienza estetica. Si nascondeva per preservarsi, consapevole che la mercificazione di tutto avrebbe portato alla mortificazione di tutto, anche delle cose belle che amiamo, anche di Shakespeare. Direi che non aveva torto. Si fa fatica a ripulire ciò che è bello dai processi di mercificazione ormai inevitabili per lavorare, e sto parlando di tutti noi, anche delle esperienze più pure e radicali. Sono questioni che risalgono a ben prima del contagio. Avremo davanti mesi di passaggio e forse tempi di cambiamento, confidiamo che il maggese imposto dal lockdown porti nuovi e migliori raccolti, anche in campo teatrale».

                                                                                                                                           Enrico Fiore

(«Corriere del Mezzogiorno», 29/5/2020)

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2 risposte a Martone: «Ritroviamo lo spirito di rivolta»

  1. Francesco de Notaris scrive:

    Gentile dottor Fiore,
    ho avuto modo di leggere l’intervista con Mario Martone pubblicata dal “Corriere del Mezzogiorno”. E numerosi sono gli spunti di riflessione proposti dalle sue domande e dalle risposte di Martone.
    Con la memoria sono andato al maggio 2005 e a un articolo de “la Repubblica” dell’11 maggio, a firma Antonio Tricomi. Presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici l’Assise di Palazzo Marigliano organizzò un incontro sulla condizione del teatro a Napoli e in Campania. Era presente l’avvocato Marotta. E “la Repubblica” titolò: “Tre ore di dibattito e trenta interventi”.
    L’articolo iniziava così: “Mille tra artisti, addetti ai lavori e appassionati hanno partecipato a palazzo Serra di Cassano al dibattito sul teatro pubblico…”. Non erano mille! Ma il salone registrava il “tutto esaurito”.
    Oggi, da coordinatore delle Assise, devo dire che il cambiamento in meglio invocato da tutti, durante quell’incontro, non è stato realizzato.
    Concordo con Martone quando afferma che “è stato molto attutito qualsiasi spirito di rivolta, ossia di creatività, nella nostra società” e che “rivolta non significa violenza”.
    Poi lei, dottor Fiore, tristemente afferma che “il teatro si è ridotto ad essere l’espressione di un piccolo mondo autoreferenziale”. Ed è evidente che occorrerebbe distinguere, discernere e considerare il momento e il contesto nel quale siamo.
    Il tempo del coronavirus spinge molti a recitare come litania frasi fatte, di uso comune, come quella che al termine della pandemia nulla sarà come prima. È sottesa la convinzione che per altri qualcosa cambierà in peggio ed “io, speriamo che me la cavo”. Anzi c’è chi fin da ora si attrezza perché per sé tutto possa migliorare anche se altri si sacrificheranno.
    Mi pare che in questa nostra terra da anni la creatività artistica sia ingabbiata dagli impresari privati dello spettacolo, mentre, parlando del teatro pubblico, i fondi vengano distribuiti con mentalità padronale e logica spartitoria.
    La politica culturale che abbia come ispiratore l’art.9 della Costituzione, che scrive di “sviluppo della cultura”, mi sembra sia estranea al comune sentire di programmatori e compilatori di cartelloni, facendo piuttosto cartello.
    Il maestro Roberto De Simone, in una testimonianza pubblicata nel 1991 (“Realizzare la speranza”, Edizioni Dehoniane, pag.95), a proposito di una proposta che presentò all’assessore regionale competente dell’epoca affermava: “Presentai l’idea all’assessore. Mi rispose: “Veda, maestro, qui c’è una torta della quale ognuno deve prendere “una fella”. Si metta d’accordo con gli altri e poi torni”. Fui sgradevolmente colpito di dover discutere in questi termini. Abbandonai l’iniziativa. In seguito organizzai due recite gratis. Io rinunciai ai diritti d’autore. Gli attori rinunciarono alla paga. Questo è un esempio per descrivere quale sia la situazione a Napoli».
    È cambiato qualcosa? Ho avuto modo di notare come fu scritta la legge regionale sul teatro, quella che va cambiata. Gli interessati andavano a “farsi la legge” e ognuno voleva che la legge salvaguardasse la propria “fetta” di interesse. Quindi dominava la logica della parcellizzazione, perché il vero problema per numerose categorie, in questo Paese culla del diritto delle corporazioni, è essere garantiti nel continuare come sempre.
    Gli estensori erano contenti di accontentare un po’ tutti, quelli del “giro”. Gli altri non erano rappresentati. Interessante per le lobby avere ciò che chiedono e non essere controllati, gestire il denaro pubblico come farebbe il privato privilegiato che non mette del suo, che non rischia economicamente. Fa capolino in scelte definite artistiche l’idea di costruire recinti amicali, il desiderio di esercitare un potere personale non estraneo al familismo, ad ambizioni immotivate, ad interessi non sempre leciti. La parola “gestione” è molto più usata della parola “progetto”.
    Leggevo il 18 u.s. sul “Corriere della Sera” un’intervista di Valerio Cappelli con Massimo Popolizio, il quale desiderava attenzione per il teatro: “Ben vengano i flussi finanziari, ma per chi e per fare che cosa? Lo spettacolo dal vivo è necessario, ma non la riproposizione di prodotti vecchi, di monologhi per fare cassa da parte di chi non riesce a vedere i cambiamenti della società”.
    Vado nelle scuole ad incontrare gli studenti. Molti giovani desiderano esprimere vocazione e personalità e creatività. Incontrano, come Lei ha scritto, non interlocutori né luoghi accoglienti, né opportunità. Anche il dibattito è carente. Sempre i soliti tromboni che chiedono al potere istituzionale soldi da distribuire o trattenere in nome della collettività.
    Occorre concludere. Auspico con Lei che il Teatro vero possa favorire la crescita culturale e politica della società. Dipenderà, come ricorda Martone, dalle scelte di chi dirige i teatri e dalla voglia e dalla capacità degli artisti di cambiare le cose.
    Aggiungo che cambieremo in meglio se sperimenteremo una politica alta che non rinunci al compito che le è proprio: guidare la società, non secondo i sondaggi ma secondo una visione di società anche rispettosa della dignità degli artisti e dei cittadini.
    Francesco de Notaris

  2. Enrico Fiore scrive:

    Gentile dottor de Notaris,
    non c’è una sola virgola, in questo suo intervento, che non risponda a verità. Ma si tratta di problemi che, purtroppo, sono sul tappeto da decenni, senza che mai se ne sia tentata la soluzione: perché vi si oppongono da un lato l’individualismo invalicabile dei teatranti e dall’altro il fatto che ormai il teatro non può esistere senza le sovvenzioni pubbliche: che, ovviamente, sono elargite con criteri clientelari dalla politica (e, per giunta, dalla politica di bassissimo rango che oggi ci tocca).
    Come vede, anch’io ripeto cose già dette e ridette. Se vogliamo porre qualche freno a tanta rovina morale e culturale, dobbiamo tutti, ciascuno per il ruolo che svolge nella società e nell’ambito della propria attività professionale, assumerci le nostre responsabilità. Per esempio, cominciando a fare pubblicamente i nomi dei responsabili e a rifiutare le interessate offerte di lavoro da parte dei “padroni del vapore”. Costa coraggio, fatica e sacrifici, lo so per esperienza personale. Ma non conosco altro modo per uscire dall'”impasse”.
    Enrico Fiore

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