Josef K.? Fa il clown sulla pista di un circo

Roberto Abbiati in un momento di «Circo Kafka», in scena al Magnolfi di Prato (le foto che illustrano questo articolo sono di Lucia Baldini)

Roberto Abbiati in un momento di «Circo Kafka», in scena al Magnolfi di Prato
(le foto che illustrano questo articolo sono di Lucia Baldini)

PRATO – Assai raramente avevo visto, in precedenza, uno spettacolo che centrasse il cuore del problema preso in esame con la stessa precisione e radicalità (starei per dire estremismo, ovviamente nel senso buono e alto del termine) che mette in campo «Circo Kafka», tratto da «Il processo» e presentato in «prima» assoluta, al Magnolfi, dal Teatro Metastasio. E mi spiego.
Come sappiamo, il cardine su cui ruota l’intera opera di Kafka è la frattura tra la parola e la realtà: una frattura in conseguenza della quale le cose – private del Nome – acquistano per l’uomo un’oggettualità per l’appunto anonima, e nello stesso tempo ostile e spietata. E in altri termini, credo che, a proposito del grande praghese, occorra prendere in considerazione l’Ecclesiaste, in particolare l’Ecclesiaste che, giusto, denuncia le parole «logore» e «usurate».
Per giunta, l’Ecclesiaste rimanda non solo, e in generale, alla cultura ebraica (e segnatamente chassidica) di Kafka, ma anche, e in specie, a quel padre che nel racconto «La condanna» assume, appunto, gli attributi del Geova biblico e, attenzione, condanna il figlio «al suicidio» perché, mediante il fidanzamento, ha osato penetrare nel regno della vita e della verità.
Spicca – a sottolineare, anche ironicamente, la frattura tra la parola e la realtà di cui dico – quella che è la battuta-chiave del romanzo «Amerika», non a caso incompiuto: «Ha farfugliato che avrebbero fatto visita a una cantante, di cui nessuno comunque ha capito il nome, perché quel tipo ogni volta lo diceva cantando!». Mentre non si potrebbe immaginare un commento a «Il processo» più pertinente dell’analisi di taglio esistenzialistico che dell’opera di Kafka, partendo da Heidegger, fece Emrich nel ’58: in sostanza, siamo di fronte alla ricerca del proprio sé autentico in una realtà totalmente alienata dalle strutture dell’apparato.
Infatti, lo ricordiamo tutti, il protagonista de «Il processo» è un impeccabile procuratore di banca, Josef K., che una mattina viene svegliato nella pensione in cui alloggia da due uscieri del tribunale incaricati di arrestarlo: in base, però, a un’accusa che non sarà mai dichiarata e in vista di un processo, appunto, che non sarà mai celebrato. Josef K. si troverà circondato da una folla eterogenea di personaggi che non conosce e non capisce, finché, prelevato all’alba nella sua camera da due signori vestiti irreprensibilmente di nero, si vedrà condotto con ogni riguardo in una cava di pietre abbandonata e lì, sempre con ogni riguardo, accoltellato a morte.
Ebbene – e vengo, così, alla precisione, alla radicalità e all’estremismo di cui all’inizio – Claudio Morganti, regista dello spettacolo presentato al Magnolfi, abolisce completamente le parole: è come se il citato personaggio di «Amerika», che non lasciava capire il nome della cantante alla quale avrebbe fatto visita perché (significantissima tautologia) lo diceva cantando, stavolta semplicemente non lo dicesse.

Roberto Abbiati in un altro momento dello spettacolo, diretto da Claudio Morganti

Roberto Abbiati in un altro momento dello spettacolo, diretto da Claudio Morganti

Di conseguenza, Josef K. si trova qui (giusto il titolo dello spettacolo) totalmente immerso nell’atmosfera, nell’ambiente e, di più, nella «filosofia» del circo. È vero, invece che alla pista ci troviamo di fronte a un classico palchetto da Commedia dell’Arte. Ma questo attiene alle forme e ai ritmi che l’interprete, uno straordinario Roberto Abbiati, desume proprio dall’«improvvisa». A conti fatti, poi, è in concreto un autentico clown: indossa una sorta di divisa da generale sovietico con sul berretto una stella dorata al posto di quella rossa, suona la cornamusa, il contrabbasso e l’organetto, fa da una tribuna un intero discorso corredando di soli movimenti delle mani e di espressioni del viso i suoni sconnessi prodotti con la minuscola armonica che tiene fra le labbra, si esibisce come giocoliere con tre palle.
Direi, però, che va ancora oltre. Nel senso che la sua (ripeto, straordinaria) performance rimanda non a uno, ma a tutti e tre i tipi di clown canonici: il clown-parlatore, il «clown de reprise» (quello incaricato di riempire i vuoti e di rilanciare la rappresentazione) e il clown-augusto (per definizione «l’uomo che prende gli schiaffi»). E se il clown-parlatore e il «clown de reprise» si manifestano appena per un attimo, quando Abbiati si rivolge all’esecutore dal vivo delle musiche, Johannes Schlosser, per rovesciargli addosso uno strampalato predicozzo in cui si accavallano senz’alcun nesso e costrutto la ruota della bicicletta, il frullatore e l’aquilone, l’augusto, con l’aria patita che gli è congenita, straripa in tutto il resto dello spettacolo.
Ma non a caso ho scritto di conseguenza. Il circo, ecco l’acuta intuizione di Morganti, è l’esatto equivalente della frattura tra la parola e la realtà che connota l’opera di Kafka: i suoi «numeri» non raccontano storie e non pongono problemi, si esauriscono in sé e in sé trovano ogni ragione e significato. Ed è per questo che – un’altra idea formidabile – il clown Josef K. dispone sul proprio letto un manichino che lo rappresenta e alla fine lo accoltella esattamente come nel romanzo i due signori vestiti irreprensibilmente di nero accoltellano il vero Josef K.: lui, proprio come gli esecutori dei «numeri» circensi, sa che non esiste, nel mondo, al di là di quei «numeri», perfettamente apparentabili alle parole. Ancora una volta mi torna in mente, al riguardo, ciò che Hofmannsthal scrisse nella lettera indirizzata il 18 giugno del 1895 al guardiamarina E.K.: «Le parole non sono di questo mondo, sono un mondo a sé del tutto indipendente, come il mondo dei suoni».
Per giunta, poi, non mancano, e testimoniano di un ulteriore pregio dell’allestimento, talune invenzioni imbevute di caustica ironia, e persino riferibili alle cronache odierne. A partire dalla sequenza iniziale, che vede Abbiati presentarsi con una tuta di quelle adottate dagli operatori sanitari alle prese con i virus e distribuire agli spettatori bigliettini con su scritto, per esempio: «Qualcuno deve aver calunniato Josef K.». Perché, s’intende, la calunnia (e i social media costituiscono nel merito untori impareggiabili) è un virus assai più pericoloso del «corona».
Chiudo. «Circo Kafka» si colloca fra il decisivo aforisma paradigmatico di Kafka («Il mondo interiore può essere solo vissuto ma non descritto») e la fondamentale affermazione di Benjamin: «Tutta l’opera di Kafka rappresenta un codice di gesti». E non c’è bisogno di aggiungere altro a proposito di questo spettacolo: davvero un gioiellino, un gioiellino scintillante d’intelligenza.

                                                                                                                                          Enrico Fiore

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