Tra il sipario e la realtà metti il Miserialismo

La «Venere degli stracci» di Michelangelo Pistoletto

La «Venere degli stracci» di Michelangelo Pistoletto

NAPOLI – Riporto lo scritto di Manlio Santanelli, «Il manifesto del Miserialismo», e il mio commento allo stesso, «Miserialismo nel teatro. Brook prima di Santanelli», pubblicati dal «Corriere del Mezzogiorno».

Premesso che le correnti artistiche sono sempre state influenzate dalle condizioni del momento storico in cui sono nate (ma poi hanno a loro volta caratterizzato quel momento), dopo l’orgia dei manifesti relativi alle molte correnti del secolo ventesimo qui si presenta il manifesto di un nuovo movimento di idee creative, che intende esprimersi in ogni campo della cultura e che nasce dalle attuali condizioni della società. Detto movimento prende il nome di Miserialismo.
A ridosso del Minimalismo, che ha connotato gli ultimi tempi manifestandosi in ogni campo della creatività, il Miserialismo s’impone, suo malgrado, in quanto determinato dall’assoluta mancanza di mezzi di produzione. I suoi caratteri fondamentali sono espressi qui di seguito:
1) Come, secondo il Materialismo Storico, la Storia è fatta dai mezzi di produzione, così il Miserialismo è frutto dei mezzi di prostrazione.
2) Il Miserialismo considera opera artistica a tutti gli effetti ogni prodotto che, condizionato dalla mancanza o, nel migliore dei casi, dall’esiguità di mezzi di produzione che non siano ad un tempo di prostituzione, stenta a raggiungere la compiutezza, bella o brutta che sia. Dunque il principio estetico del Miserialismo non si basa sulla bellezza dell’opera prodotta ma sullo sforzo di averla prodotta con il minimo costo, se non proprio a costo zero.
3) Il Miserialismo basa la sua ragione fondante sul volontariato dell’artista. Costui non deve in assoluto pretendere che il prodotto del suo ingegno venga in qualche modo remunerato. Il riconoscimento da parte del pubblico, che pure è un suo inalienabile diritto, punta sul binomio Fama-Fame.
4) Il Miserialismo, per tenere fede al suo fondamento ideologico, deve ignorare le Istituzioni. Nella piena convinzione che la creatività, privata del sostegno pubblico, va decisamente incontro a difficoltà bibliche, tali da ridurre le Sette Piaghe d’Egitto a piccoli incidenti di percorso, trarrà nuova linfa dagli insuccessi, dagli aborti, dalle gravidanze isteriche dei suoi associati. Del resto, il ricorso alle dette Istituzioni, tutte, nessuna esclusa, neanche il Ministero della Difesa dell’Endecasillabo, è fatalmente votato all’insuccesso. Si incorre in uno sgradevole confronto, dal quale le Istituzioni escono agevolmente trionfanti grazie alla ben nota argomentazione: «Voi artisti giocate, vi divertite, cosa pretendete da noi, che vi si paghi il divertimento? Dovete essere impazziti. Rispondete: anche quando andavate all’asilo giocavate, con i cubi, con il lego, con i pennarelli, ma ci pagavate la retta. Siateci grati del fatto che vi lasciamo giocare ancora, e divertirvi come allora, senza pretendere nessuna retta da voi».

Manlio Santanelli (foto di Cesare Abbate)

Manlio Santanelli
(foto di Cesare Abbate)

5) Quanto al teatro, la parola recitata ascende al trono della sovranità, vuoi perché è arduo farne a meno se si vuole raccontare una storia, vuoi perché – elemento che taglia la testa al topo (che costa molto meno del toro) – non comporta alcuna spesa. Se rivolgiamo un pensiero agli spettacoli di un tempo, alle scenografie faraoniche, agli impianti di illuminazione sempre più al passo con i tempi, il Miserialismo bolla quell’epoca col marchio della prodigalità fine a se stessa, della dissipatezza come perversione della essenzialità (il primo principio del nostro manifesto), della mania suntuaria, del Borrominismo che merita di venire aborrito. Lo scenografo che sposa i principi di base del Miserialismo ha a disposizione tutti i «neri» che vuole, vale a dire i tre fondali del palcoscenico, e come luce una candela o più di una, ma sempre se necessaria, ossia se in mancanza di essa non si può fare lo spettacolo. A chi obiettasse che il nero è funereo, è il colore del lutto, della mortificazione degli occhi, il Miserialismo risponde che trattasi di soggetti ossessionati dall’idea della morte. A costoro, inoltre, sentiamo il dovere di ricordare le parole di Francesco d’Assisi quando diceva che la morte è nostra sorella. Ne consegue che uno spettacolo in cui la scenografia si limiti all’uso dei tre «neri» d’obbligo non solo si attesta sul livello minimo dei costi, ma sortisce anche l’effetto di risultarci familiare attraverso il rapporto con Sorella Morte.
6) Sempre in tema di teatro, a che serve il sipario? Molti sostengono che sia metafora delle due palpebre che si aprono su un nuovo mondo. Il Miserialismo respinge per principio le metafore con la motivazione che dietro di esse il più delle volte si nasconde l’incapacità di dire pane al pane e vino al vino. A voler glissare sul fatto che anche il pane e il vino hanno un costo, tornando al sipario il Miserialismo si chiede perché illudere lo spettatore prospettandogli un viaggio meraviglioso, quando alla sua apertura non gli si offre niente di nuovo, men che meno lo specchio di Alice. Inoltre, va tenuto conto che il sipario non si apre da sé, richiede un siparista, e dunque una spesa aggiuntiva.
7) A riprova dei vantaggi del Miserialismo, siamo già in grado di fornire due esempi di successi ispirati a tale movimento: a) un «Amleto» in cui il protagonista indossava un jeans stracciato alle ginocchia e una maglietta con l’immagine di Cristiano Ronaldo, il Re e la Regina avevano sul capo due scolapasta come corone, e il duello finale, in mancanza di spade, si risolveva a sputi in faccia; b) uno spettacolo wagneriano il cui produttore, non avendo le possibilità economiche di procurarsi un teatro lirico, ha chiesto ospitalità alla Curia, e la Curia gli ha generosamente messo a disposizione una chiesa sconsacrata, chiedendo come contropartita soltanto il cambio del titolo, da «La Walkiria» a «Walkirie eleison».
8) A parziale conclusione di quanto detto (soltanto queste possiamo permetterci, le conclusioni totali costano di più), il Miserialismo invita tutti a riflettere sui rischi che si annidano nella retorica delle Istituzioni, le quali, quando non sanno indicare in che direzione bisogna orientarsi, ci incitano a guardare all’Europa e all’euro. È una deformazione mentale, la quale appare nella sua evidenza se si considera che la demagogia dominante nasconde di aver sottratto ai due termini suddetti una «n» che, se rimessa al suo posto, li farebbe riapparire nella loro vera luce di Neuropa e Neuro.
9) Infine, il manifesto del Miserialismo richiede a ciascuno dei suoi firmatari un esercizio quotidiano, consistente nell’emissione di aria dalle due labbra strette, manifestazione comunemente detta pernacchia. Quando la capacità dei firmatari in quest’esercizio avrà raggiunto un affiatamento armonico tale da poter gareggiare con i Berliner Philharmoniker, verrà organizzato un raduno sotto i palazzi delle Istituzioni, con la nobile finalità di far pervenire ai loro rappresentanti un corale segno di apprezzamento (a prezzo stracciato).

                                                                                                                                   Manlio Santanelli

(«Corriere del Mezzogiorno», 14/1/2020)

Un momento de «La tragédie d'Hamlet» di Peter Brook

Un momento de «La tragédie d’Hamlet» di Peter Brook

«In tema di teatro, a che serve il sipario? Molti sostengono che sia metafora delle due palpebre che si aprono su un nuovo mondo. Il Miserialismo respinge per principio le metafore con la motivazione che dietro di esse il più delle volte si nasconde l’incapacità di dire pane al pane e vino al vino. A voler glissare sul fatto che anche il pane e il vino hanno un costo, tornando al sipario il Miserialismo si chiede perché illudere lo spettatore prospettandogli un viaggio meraviglioso, quando alla sua apertura non gli si offre niente di nuovo, men che meno lo specchio di Alice».
De «Il manifesto del Miserialismo», lo scritto di Manlio Santanelli pubblicato ieri, mi ha colpito innanzitutto questo passo: perché a prendersela con il sipario era già stato, molto prima, un signore che, nientemeno, si chiama Peter Brook.
Nel maggio del 1989, quando a Taormina gli fu assegnato il Premio Europa per il Teatro, assistetti a un incontro fra Brook e una foltissima platea di giovani. E lui subito li gelò: «Io non amo il teatro». Ma altrettanto rapidamente si affrettò a spiegare, raccontando come avesse reagito con un pianto disperato allorché, bambino, fu portato per la prima volta a teatro e, dietro il sipario dipinto con mille disegni fantasmagorici, trovò una terrificante assenza di movimento.
Poi, il grande regista aggiunse: «È importante non amare quello che si sta facendo, perché solo il contatto con una realtà sentita come insopportabile può costringere a guardare oltre e a superarne le vuote forme e le convenzioni». E sta in quest’affermazione – solo apparentemente iperbolica e provocatoria, così come solo apparentemente iperbolico e provocatorio è lo scritto di Santanelli – la chiave per comprendere il cammino che ha condotto Brook all’alta conquista del suo teatro: la povertà dell’arredo scenico accoppiata con la straordinaria capacità di creare intorno a quegli scarni segni un alone praticamente infinito di sensazioni e sentimenti.
Quel cammino, in breve, è lastricato con la sottrazione. E faccio, al riguardo, appena l’esempio di «Amleto»: a parte l’allestimento che si favoleggia ne abbia realizzato da ragazzo, Peter Brook s’è confrontato con il capolavoro shakespeariano, che lui definisce «la “Divina Commedia” dell’umanità», lungo un arco di circa quarant’anni; e dall’edizione del ’55 (pedissequamente fedele al testo originale, tanto che il più importante critico inglese, Kenneth Tynan, ebbe a scrivere: «Brook può essere noioso come tutti gli altri registi») si è arrivati, passando per il collage del ’95 «Qui est là?», a «La tragédie d’Hamlet» presentata nel 2002 alla Biennale di Venezia e in cui la sintesi testuale si sposava perfettamente con il «minimalismo» dell’impianto scenografico: nient’altro che un grande tappeto color ambra, un secondo tappeto piccolo e dorato, due panchette e quattro cuscini.
Come si vede, Peter Brook ha firmato il manifesto del Miserialismo ben prima che Santanelli provvedesse a stilarlo. E di quel manifesto ha applicato con larghissimo anticipo l’ostracismo decretato nei confronti delle «scenografie faraoniche» che connotavano «gli spettacoli di un tempo», bollando con decisione assoluta la «prodigalità fine a se stessa», la «dissipatezza come perversione dell’essenzialità» e il «Borrominismo che merita di venire aborrito». E del resto, è perfettamente in linea con i princìpi del Miserialismo già la prima frase del suo fondamentale saggio «Lo spazio vuoto»: «Posso prendere un qualsiasi spazio vuoto e chiamarlo palcoscenico vuoto. Un uomo attraversa questo spazio vuoto mentre qualcun altro lo guarda, e questo è tutto ciò di cui ho bisogno perché si inizi un atto teatrale».

Peter Brook

Peter Brook

Ma, scherzi (si fa per dire…) a parte, io, tornando al sipario, considero come dei sipari – cioè, sempre per citare il manifesto del Miserialismo stilato da Santanelli, come un mezzo per «illudere lo spettatore prospettandogli un viaggio meraviglioso» – anche le famigerate note di regia e, soprattutto, le interviste rilasciate dai teatranti per propagandare i loro spettacoli: grondano, nella quasi totalità dei casi, di mirabolanti promesse che non trovano alcun riscontro sul palcoscenico, senza contare le sciocchezze che altrettanto spesso dispensano con la complicità dei soliti imbonitori in servizio permanente effettivo travestiti, nella circostanza, da cronisti. E come la mettiamo, poi, con i due precetti-chiave dettati dal manifesto in questione: «Il Miserialismo basa la sua ragione fondante sul volontariato dell’artista. Costui non deve in assoluto pretendere che il prodotto del suo ingegno venga in qualche modo remunerato. Il riconoscimento da parte del pubblico, che pure è un suo inalienabile diritto, punta sul binomio Fama-Fame» e «Il Miserialismo, per tenere fede al suo fondamento ideologico, deve ignorare le Istituzioni»?
Lo sappiamo, senza le sovvenzioni pubbliche, elargite per l’appunto dalle Istituzioni, i teatri, tutti, chiuderebbero nel giro di una settimana. Ma questo non significa che non ci si debba opporre ai criteri, quanto meno discutibili, con cui quelle sovvenzioni vengono distribuite. E invece, al riguardo i teatranti (mi esprimo con un pietoso eufemismo) predicano bene e razzolano male: nel senso che, poniamo, mentre non fanno che sparlare degli Stabili, attendono solo l’occasione per saltare sul loro carro e, in particolare, sul carro personale dei loro direttori.
Proprio la cronaca ce ne fornisce in questi giorni un esempio eclatante. Sono anni che Gabriele Lavia, regista e protagonista dell’allestimento de «I giganti della montagna» in cartellone al Mercadante, spara a zero contro gli Stabili. Ricordo una cena ad Ascea, dove mi trovavo per una manifestazione commemorativa a dieci anni dalla scomparsa di Leo de Berardinis, durante la quale Lavia non fece che affermare: «Gli Stabili hanno ucciso il teatro». E in occasione dello spettacolo proposto al Mercadante parla di un teatro «ucciso dagli uffici e dalla burocrazia: in cui i dipendenti a tempo indeterminato, che non possono essere toccati, hanno fatto sì che si potesse toccare solamente il precario, cioè il teatro».
Ma si dà il caso che l’allestimento de «I giganti della montagna» di cui Lavia è regista e protagonista sia prodotto, e con larghissimo impiego di soldi, proprio da uno Stabile e per giunta Nazionale, la Fondazione Teatro della Toscana.
Allora? Allora chiudo citando un volumetto di suoi versi mandatomi da Igor Esposito, che non demerita anche come autore teatrale. Contiene una parafrasi de «Le ceneri di Gramsci», «Le ceneri di Pasolini», che assume come epigrafe l’osservazione dello stesso Pasolini datata 1 novembre 1975: «Il rifiuto per funzionare deve essere grande, non piccolo, totale / non su questo o quel punto, “assurdo”, non di buon senso. (…) E voi siete, con la scuola, la televisione, la pacatezza / dei vostri giornali, voi siete i grandi conservatori / di questo ordine orrendo basato sull’idea di possedere e sull’idea di distruggere».
Eccone un passo, che davvero sembra l’eco del discorso di Santanelli sulle Istituzioni: «È un latrare di cani il parlamento italiano: / imbellettati ossessi ignorano l’originaria / forza d’un partigiano sangue, colorano / di balle i giorni grigi delle casalinghe, / promettono lavoro, meno tasse e parlano, / parlano, parlano d’un costituzionale paese normale; / dove vivere per qualcuno è quasi come morire».

                                                                                                                                           Enrico Fiore

(«Corriere del Mezzogiorno», 15/1/2020)

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