NAPOLI – «Il comunismo è molto semplice; bisogna prendere tutto e dividerlo in parti uguali. Uguali! un pezzo a te, un pezzo a te e un pezzo a te, perché sennò uno abita in sette stanze e ha 40 paia di pantaloni, mentre un altro va in giro a cercare cibo nell’immondizia! Io sono comunista! Borghesi tutti appesi! Borghesi figli di cagna! Io mi sveglio e faccio una rivoluzione! Gennaio, febbraio, marzo, aprile, maggio, giugno, luglio, agosto, settembre, ottobre! Faccio una rivoluzione d’ottobre! Sono comunistaaaa!».
È la battuta-chiave di «Cuore di cane», l’adattamento dell’omonimo romanzo di Michail Bulgakov che Licia Lanera presenta con la sua compagnia nel Piccolo Bellini. Ma non l’ha scritta Bulgakov. E dunque, basterebbe da sola a dimostrare come l’allestimento in questione abbia soprattutto il raro pregio di agganciarsi all’attualità che ci assale e ci coinvolge, ogni giorno, dalle televisioni, dai giornali e dai famigerati «social»: un’attualità che, lo sappiamo, ha specialmente il segno di una politica tanto arrogante quanto fintamente progressista e, di fatto, soltanto orecchiante e parolaia.
Attenzione, però: un secondo e ancor più raro pregio dello spettacolo di Licia Lanera è quello di dar luogo all’attualizzazione di cui ho detto nel pieno rispetto della vicenda umana e, giusto, politica dell’autore oltreché dei contenuti e degli aspetti formali della sua opera. E qui di seguito sottolineo questo rispetto mediante alcuni cenni riassuntivi.
«Cuore di cane» fu composto nel 1925 e pubblicato nel 1928. E racconta del professor Filipp Filippovič Preobraženskij, scienziato di eccezionale inventiva e chirurgo di non meno straordinaria abilità, che sostituisce l’ipofisi e le ghiandole seminali di un cane randagio con quelle di un ladro defunto. Il risultato è che la «creatura» che vien fuori dallo stupefacente intervento conserva la propria sensibilità canina e, insieme, acquista tutte le caratteristiche di emarginato sociale del delinquente che fu. E così, mentre odia i gatti, fa lega con i peggiori gozzovigliatori e cade nelle grinfie della più deteriore propaganda politica. Finché, coinvolto negli spiacevoli esiti di questa degradazione, lo scienziato-chirurgo non decide di procedere a una seconda operazione, restituendo la «creatura» alla sua originaria condizione canina.
Siamo, evidentemente, di fronte a un’allegoria della Mosca degli anni della N.E.P., la Nuova Politica Economica: gli anni, dal 1921 al ’28, che videro lo scontro fra la vecchia classe borghese, portatrice di una certa cultura e di un certo modo di vivere anchilosati, e la realtà completamente diversa rappresentata dalla società proletaria in via di edificazione. E l’intervento chirurgico in questione e le sue conseguenze costituiscono la metafora delle speranze (su tutte quella di far nascere l’Uomo Nuovo) destate dal processo rivoluzionario in atto e dell’involuzione e delle deviazioni dallo stesso subite.
Ebbene, la situazione surreale in cui Bulgakov traduce questo scontro gli dà poi modo, sul piano formale, di adottare e sfruttare una lingua incredibilmente agile e mutevole. Che trova un perfetto equivalente nel virtuosismo vocale – un’autentica valanga di squittii serpeggianti, borbottii incomprensibili, sussurri mielosi, scoppi d’ira avvelenati, ammiccamenti tendenziosi – che Licia Lanera dispiega in sintonia con la funzionalissima colonna sonora elettronica di Tommaso Qzerty Danisi e di cui già ebbi una dimostrazione (esclusi, ovviamente, i mugolii e i latrati di oggi) quando, l’anno scorso, vidi nell’ambito della ventiduesima edizione del Festival delle Colline Torinesi lo spettacolo «The Black’s Tales Tour», dato, non a caso, nello storico Le Roi Music Hall.
In più, sul piano dei contenuti, la Lanera, in quanto regista, offre subito lo spunto per una bruciante riflessione storico-politica: col sipario ancora chiuso, ci fa sentire le parole di Bulgakov che denuncia l’emarginazione e la persecuzione da lui patite nel quadro, appunto, dell’arrestarsi in Unione Sovietica della spinta rivoluzionaria sinceramente comunista. E tale quadro, ecco un’invenzione assolutamente fondata e significante, assume, stavolta in funzione simbolica, la divisione dello spettacolo in due parti: nella prima Licia Lanera si muove in una tormenta di neve e nella seconda sta quasi sempre immobile su una comoda poltroncina, collocata su una pedana e accarezzata dalla luce discreta di un abat-jour.
È l’alternarsi di un sommovimento naturale (giusto la tensione verso il riscatto delle classi subalterne) e di una ricaduta nell’alveo della «tranquillità» (giusto il riaffiorare dei princìpi della classe dominante solo per un attimo sconfitta). E adesso, per tornare alla battuta citata all’inizio e, ripeto, del tutto inventata rispetto al romanzo di Bulgakov, non vi sembra che con essa Licia Lanera abbia lanciato un’impagabile e tremenda frecciata contro, poniamo, uno dei tanti populisti Cinquestelle?
Fa il paio, quella frecciata, con la decisione, ugualmente inventata, di uccidere il presunto Uomo Nuovo rivelatosi un mostro. E non dico niente, infine, circa la bravura d’attrice della Lanera, che recita dall’inizio alla fine indossando allusivamente una maschera di vecchia. Dico, invece, qualcosa sul coraggio che Licia – separatasi dal drammaturgo e compagno di vita Riccardo Spagnulo, con la conseguente fine di Fibre Parallele, una delle formazioni più interessanti del teatro di ricerca – sta dimostrando nel continuare il cammino da sola, e come autrice lei stessa oltre che interprete e regista. Questo «Cuore di cane» è il primo episodio di una trilogia, «Guarda come nevica», sul tema del disagio. E davvero non a caso si conclude con Licia e Tommaso Qzerty Danisi che s’abbandonano a un valzer sull’onda di «Ottocento» di De André. Si sente l’eco del lucido strazio di Leonard Cohen: «Prendi questo valzer. È tutto quel che c’è».
Enrico Fiore