Se il cane-uomo di Bulgakov somiglia a un politico Cinquestelle

Licia Lanera in un momento di «Cuore di cane», in scena nel Piccolo Bellini (le foto che illustrano l'articolo sono di Manuela Giusto)

Licia Lanera in un momento di «Cuore di cane», in scena nel Piccolo Bellini
(le foto che illustrano l’articolo sono di Manuela Giusto)

NAPOLI – «Il comunismo è molto semplice; bisogna prendere tutto e dividerlo in parti uguali. Uguali! un pezzo a te, un pezzo a te e un pezzo a te, perché sennò uno abita in sette stanze e ha 40 paia di pantaloni, mentre un altro va in giro a cercare cibo nell’immondizia! Io sono comunista! Borghesi tutti appesi! Borghesi figli di cagna! Io mi sveglio e faccio una rivoluzione! Gennaio, febbraio, marzo, aprile, maggio, giugno, luglio, agosto, settembre, ottobre! Faccio una rivoluzione d’ottobre! Sono comunistaaaa!».
È la battuta-chiave di «Cuore di cane», l’adattamento dell’omonimo romanzo di Michail Bulgakov che Licia Lanera presenta con la sua compagnia nel Piccolo Bellini. Ma non l’ha scritta Bulgakov. E dunque, basterebbe da sola a dimostrare come l’allestimento in questione abbia soprattutto il raro pregio di agganciarsi all’attualità che ci assale e ci coinvolge, ogni giorno, dalle televisioni, dai giornali e dai famigerati «social»: un’attualità che, lo sappiamo, ha specialmente il segno di una politica tanto arrogante quanto fintamente progressista e, di fatto, soltanto orecchiante e parolaia.
Attenzione, però: un secondo e ancor più raro pregio dello spettacolo di Licia Lanera è quello di dar luogo all’attualizzazione di cui ho detto nel pieno rispetto della vicenda umana e, giusto, politica dell’autore oltreché dei contenuti e degli aspetti formali della sua opera. E qui di seguito sottolineo questo rispetto mediante alcuni cenni riassuntivi.
«Cuore di cane» fu composto nel 1925 e pubblicato nel 1928. E racconta del professor Filipp Filippovič Preobraženskij, scienziato di eccezionale inventiva e chirurgo di non meno straordinaria abilità, che sostituisce l’ipofisi e le ghiandole seminali di un cane randagio con quelle di un ladro defunto. Il risultato è che la «creatura» che vien fuori dallo stupefacente intervento conserva la propria sensibilità canina e, insieme, acquista tutte le caratteristiche di emarginato sociale del delinquente che fu. E così, mentre odia i gatti, fa lega con i peggiori gozzovigliatori e cade nelle grinfie della più deteriore propaganda politica. Finché, coinvolto negli spiacevoli esiti di questa degradazione, lo scienziato-chirurgo non decide di procedere a una seconda operazione, restituendo la «creatura» alla sua originaria condizione canina.

Un altro momento dello spettacolo, che si replica fino a domenica

Un altro momento dello spettacolo, che si replica fino a domenica

Siamo, evidentemente, di fronte a un’allegoria della Mosca degli anni della N.E.P., la Nuova Politica Economica: gli anni, dal 1921 al ’28, che videro lo scontro fra la vecchia classe borghese, portatrice di una certa cultura e di un certo modo di vivere anchilosati, e la realtà completamente diversa rappresentata dalla società proletaria in via di edificazione. E l’intervento chirurgico in questione e le sue conseguenze costituiscono la metafora delle speranze (su tutte quella di far nascere l’Uomo Nuovo) destate dal processo rivoluzionario in atto e dell’involuzione e delle deviazioni dallo stesso subite.
Ebbene, la situazione surreale in cui Bulgakov traduce questo scontro gli dà poi modo, sul piano formale, di adottare e sfruttare una lingua incredibilmente agile e mutevole. Che trova un perfetto equivalente nel virtuosismo vocale – un’autentica valanga di squittii serpeggianti, borbottii incomprensibili, sussurri mielosi, scoppi d’ira avvelenati, ammiccamenti tendenziosi – che Licia Lanera dispiega in sintonia con la funzionalissima colonna sonora elettronica di Tommaso Qzerty Danisi e di cui già ebbi una dimostrazione (esclusi, ovviamente, i mugolii e i latrati di oggi) quando, l’anno scorso, vidi nell’ambito della ventiduesima edizione del Festival delle Colline Torinesi lo spettacolo «The Black’s Tales Tour», dato, non a caso, nello storico Le Roi Music Hall.
In più, sul piano dei contenuti, la Lanera, in quanto regista, offre subito lo spunto per una bruciante riflessione storico-politica: col sipario ancora chiuso, ci fa sentire le parole di Bulgakov che denuncia l’emarginazione e la persecuzione da lui patite nel quadro, appunto, dell’arrestarsi in Unione Sovietica della spinta rivoluzionaria sinceramente comunista. E tale quadro, ecco un’invenzione assolutamente fondata e significante, assume, stavolta in funzione simbolica, la divisione dello spettacolo in due parti: nella prima Licia Lanera si muove in una tormenta di neve e nella seconda sta quasi sempre immobile su una comoda poltroncina, collocata su una pedana e accarezzata dalla luce discreta di un abat-jour.
È l’alternarsi di un sommovimento naturale (giusto la tensione verso il riscatto delle classi subalterne) e di una ricaduta nell’alveo della «tranquillità» (giusto il riaffiorare dei princìpi della classe dominante solo per un attimo sconfitta). E adesso, per tornare alla battuta citata all’inizio e, ripeto, del tutto inventata rispetto al romanzo di Bulgakov, non vi sembra che con essa Licia Lanera abbia lanciato un’impagabile e tremenda frecciata contro, poniamo, uno dei tanti populisti Cinquestelle?
Fa il paio, quella frecciata, con la decisione, ugualmente inventata, di uccidere il presunto Uomo Nuovo rivelatosi un mostro. E non dico niente, infine, circa la bravura d’attrice della Lanera, che recita dall’inizio alla fine indossando allusivamente una maschera di vecchia. Dico, invece, qualcosa sul coraggio che Licia – separatasi dal drammaturgo e compagno di vita Riccardo Spagnulo, con la conseguente fine di Fibre Parallele, una delle formazioni più interessanti del teatro di ricerca – sta dimostrando nel continuare il cammino da sola, e come autrice lei stessa oltre che interprete e regista. Questo «Cuore di cane» è il primo episodio di una trilogia, «Guarda come nevica», sul tema del disagio. E davvero non a caso si conclude con Licia e Tommaso Qzerty Danisi che s’abbandonano a un valzer sull’onda di «Ottocento» di De André. Si sente l’eco del lucido strazio di Leonard Cohen: «Prendi questo valzer. È tutto quel che c’è».

                                                                                                                                           Enrico Fiore

Questa voce è stata pubblicata in Recensioni. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *