Incontro nella neve fra Majakovskij, Pavese e un maiale

Licia Lanera in un momento de «I sentimenti del maiale», dato al Carignano di Torino (le foto che illustrano questo articolo sono di Manuela Giusto)

Licia Lanera in un momento de «I sentimenti del maiale», dato al Carignano di Torino
(le foto che illustrano questo articolo sono di Manuela Giusto)

TORINO – Non so se Licia Lanera ci abbia pensato, ma questo suo nuovo spettacolo – «I sentimenti del maiale», presentato in coproduzione con Teatro Piemonte Europa e Festival delle Colline Torinesi al Carignano, nell’ambito della rassegna «Summer Plays» organizzata dallo Stabile di Torino – non poteva debuttare che per l’appunto a Torino.
Si tratta del capitolo conclusivo della trilogia sul tema del disagio «Guarda come nevica», ispirato a Majakovskij e preceduto nel 2018 da «Cuore di cane» e nel 2019 da «Il gabbiano», riferiti, naturalmente, a Bulgakov e a Cechov. E siccome il testo della Lanera si apre con la citazione dell’ultima lettera scritta da Majakovskij, in cui, fra l’altro, si dice: «Se muoio, non incolpate nessuno. E, per favore, niente pettegolezzi. […] Mamma, sorelle, compagni, perdonatemi», a me è subito tornato in mente che proprio a Torino ci fu un suicidio famoso molto simile.
Nella notte fra il 26 e il 27 agosto del 1950, in una stanza dell’albergo Roma, a pochi passi dalla stazione di Porta Nuova, Cesare Pavese si uccise ingerendo più di dieci bustine di sonnifero. Sulla prima pagina dei «Dialoghi con Leucò», che teneva sul comodino, scrisse: «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi».
Qualche anno fa, trovandomi a Torino per vedere non ricordo quale spettacolo, capitai giusto in quella stanza. Non me lo dissero, all’arrivo, per il timore d’impressionarmi. Me lo dissero solo al momento della partenza. E adesso, per giunta, dei tre giorni in cui «I sentimenti del maiale» è stato dato al Carignano, il 25, il 26 e il 27 agosto, io ho scelto, per vederlo, l’ultimo, il 27. Non ci avevo pensato, ma dopo mi sono accorto di aver scelto di vedere «I sentimenti del maiale» nello stesso giorno in cui settant’anni fa si uccise Pavese.
Ovviamente, non è solo per queste coincidenze d’ordine esterno che accosto Vladimir Majakovskij a Cesare Pavese. Ne «Il mestiere di vivere», il diario che Pavese tenne dal 1935 alla morte, c’è un insistito richiamo al suicidio inteso come ribellione, come unico mezzo per controllare una vita che si sente sfuggire di continuo nel non senso. E non v’è dubbio che il suicidio di Majakovskij ebbe motivazioni identiche.
Ecco, allora, che – ne «I sentimenti del maiale» – c’imbattiamo in due attori, la stessa Licia Lanera e Danilo Giuva, che, chiusi in una stanza invasa dalla neve, leggono, parlano, giocano, bisticciano, recitano: in pratica, fanno le prove di uno spettacolo che, si capisce, non avrà mai luogo; o, forse, fanno semplicemente le prove del loro suicidio. E certo, si avverte, in un simile plot, l’eco della situazione di prigionia e di paralisi determinata dal coronavirus. Ma poi – a costituire, oltre la contingenza, la giustificazione «filosofica» e il valore poetico del testo – s’impongono l’acuta strategia drammaturgica e la straordinaria e coinvolgente coerenza interna con cui lo stesso invera quello ch’è il concetto-chiave della lettera di Majakovskij citata in apertura: «La barca dell’amore si è spezzata contro il quotidiano».

Licia Lanera e Danilo Giuva in un altro momento dello spettacolo

Licia Lanera e Danilo Giuva in un altro momento dello spettacolo

Lo spettacolo si nutre, dunque, dell’accoppiata che fonde un ossimoro feroce e uno scontro simbolico all’ultimo sangue. Vedi, tanto per chiarirci immediatamente, la sequenza – non a caso collocata in posizione fortemente icastica, all’inizio – che comprende nell’ordine la descrizione minuta dell’uccisione del maiale (è anche una festa, un rituale familiare) da parte di Danilo e la constatazione sconsolata di Licia: «Le 11,30, fuori è aprile e io sono chiusa qui. E tutta questa neve mi sta seppellendo. Fuori esplode qualcosa di simile alla primavera, mentre qui dentro è tutto fermo. E freddo». Ed è superfluo precisare che il maiale – di cui, lo sappiamo, non si butta via niente – viene assunto come equivalente della vita.
Allo stesso modo, si mescolano strenuamente l’«alto» e il «basso»: tanto per fare un esempio, alla citazione de «La ballata di Stroszek» di Herzog («il film più triste del mondo», lo definisce Licia) corrisponde l’elenco, in pari misura svagato e puntiglioso, delle varie marche di vodka; mentre, a dire della suaccennata coerenza interna del testo, basta considerare il parallelismo stabilito fra l’uccisione del maiale, appeso per le zampe posteriori, e la morte di Ian Curtis, il paroliere del gruppo Joy Division che si uccise impiccandosi a un vecchio stendibiancheria da parete. Quel Curtis che prima di morire vide, per l’appunto, «La ballata di Stroszek» di Werner Herzog. E che due mesi prima aveva già tentato il suicidio ingerendo dei barbiturici come Pavese.
Una salutare autoironia arriva, infine, a benedire il tutto. E valga, in proposito, il solo esempio del dialogo seguente: Licia: «Se mettessi in fila i miei ricordi, risulterebbero di gran lunga più straordinari di quelli di altre persone. Una straordinarietà di eventi, una vita burrascosa, spericolata…» – Danilo: «Ma vattenaffanculo!» – Licia: «Vuoi vedere che m’ammazzo? Lo vuoi vedere? Una volta alle elementari m’hanno spaccato la testa con una pietra in una rissa» – Danilo: «Sarà per questo che sei diventata artista».
Si comprende, dunque, che lo spettacolo in cui tutto questo si traduce risulta – giusto l’ossimoro di cui sopra – disperato ed ilare insieme. E Licia Lanera vi mette se stessa molto più di quanto avesse fatto nei due capitoli precedenti della trilogia e, in genere, negli altri allestimenti da lei firmati: perché, stavolta, s’identifica perfettamente con il tema svolto la fisicità straripante che connota Licia: una fisicità particolarissima – e qui spinta fino a una virtuosistica esibizione vocale da rocker consumato – che sempre m’è parsa attraversata, nel fondo, da un brivido di pena.
Preciso, poi, è Danilo Giuva nel ruolo di «spalla» o, meglio, di «doppio» e di coscienza critica. E decisiva, infine, è la prova fornita dalla band composta da Dario Bissanti (chitarra e voce), Giorgio Cardone (batteria) e Nico Morde Crumor (basso). Ripropongono, è ovvio, brani dei Joy Division e, soprattutto, «Lithium» dei Nirvana, il cui testo, come sappiamo, fu scritto dal frontman del gruppo, quel Kurt Cobain che morì anche lui suicida.
Già: «Mi piace. Non sto per cedere. / Mi manchi. Non sto per cedere. / Ti amo. Non sto per cedere. / Ti ho ucciso. Non sto per cedere». Un testo che sembra proprio una fotografia di questo spettacolo: poiché lo stillicidio di «Non sto per cedere» comunica esattamente la volontà di vivere accoppiata con la sensazione di non poter più vivere. Ed è oltremodo significante che la band esegua «Lithium» sotto specie di un bis, facendone, così, la sigla dello spettacolo.
Chiudo osservando che – come capita assai raramente, soprattutto di questi tempi – «I sentimenti del maiale» desta uno spettro d’echi amplissimo. Io ne ho sentito uno forte in un altro capitolo conclusivo di un’altra trilogia: quella noir di Jean-Claude Izzo, composta dai romanzi «Casino totale», «Chourmo» e «Solea». In «Solea» il protagonista, Fabio Montale, dice che «l’abitudine alla vita non è una vera ragione per vivere». E dal Montale di Izzo possiamo riandare al Caribaldi di Bernhard: per il quale, appunto, la vita è solo una stanca abitudine.

                                                                                                                                         Enrico Fiore

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