Teatri riaperti senza il teatro

Da sinistra, Irene Petris e Cristina Donadio in un momento de «La Chunga» (la foto è di Marco Ghidelli)

Da sinistra, Irene Petris e Cristina Donadio in un momento de «La Chunga»
(la foto è di Marco Ghidelli)

NAPOLI – Riporto la riflessione pubblicata ieri dal «Corriere del Mezzogiorno».

Quante volte – in questi mesi di segregazioni e smarrimenti – abbiamo letto e sentito il proclama «niente sarà più come prima»? Era il mantra dell’ipocrisia, perché ognuno di noi, in fondo, sapeva che invece tutto sarebbe stato esattamente come prima, anzi peggio di prima. E la conferma viene dal teatro, in particolare, per attenerci alla cronaca, dall’allestimento del testo di Mario Vargas Llosa, «La Chunga», che ha aperto nel cortile del Maschio Angioino, per la regia di Pappi Corsicato, la rassegna «Scena Aperta» varata dallo Stabile di Napoli. È uno spettacolo che somma alcuni dei vizi atavici dei teatranti nostrani (a partire dalla voluttà di perdersi nella contemplazione del proprio ombelico) e le limitazioni derivanti dalla necessità di tenere a freno i contagi da coronavirus. Ma diciamo subito che cos’è l’oggetto drammaturgico a cui aggancio questa mia riflessione, amarissima e pure obbligata.
La Chunga, nata nel bordello chiamato Casa Verde, gestisce un sordido bar poco fuori Piura, una città nel nord del Perù circondata da distese di sabbia. Una sera del 1945 si ritrovano ancora una volta in quel bar, a giocare a dadi, i quattro clienti abituali (José, Lituma, Josefino e Scimmia) che si sono autodefiniti, con tanto di proprio inno, «inconquistabili». E Josefino, un magnaccia esibizionista e violento, perde tutto, sicché, per poter continuare a giocare, chiede a Chunga tremila soles. In cambio le darà per una notte Meche, la sua bellissima ragazza. E la Chunga accetta, ma in effetti nessuno sa che cosa veramente avvenne, poi, nella stanza da letto sovrastante il bar. Anche perché, al termine di quella notte, Meche scomparve e non se ne ebbero più notizie. Restano solo le varie versioni dei fatti sciorinate anni dopo dai quattro «inconquistabili».
Questo, in sintesi, il plot dei due atti di Vargas Llosa. Ed è oltremodo evidente che si tratta di un impianto drammaturgico irriducibilmente segnato dal simbolo: vedi, per intenderci, l’anno in cui si svolge l’azione, quello della fine della seconda guerra mondiale, la sabbia che circonda Piura (ovvero il «deserto» lasciato dalla guerra) e il nome che hanno assunto i protagonisti maschili, a dire della loro estraneità a qualsiasi assetto civile. E il simbolo dei simboli è la sedia a dondolo su cui staziona quasi stabilmente la Chunga, che – dice la lunghissima didascalia iniziale, una sorta di piccolo saggio socio-psicologico – «si culla dolcemente, con un cigolío sempre identico, gli occhi perduti nel vuoto, assorta nei ricordi o con la mente in bianco, semplicemente esistendo?».

Mario Vargas Llosa

Mario Vargas Llosa

Non a caso, accade talvolta che qualcuno degli «inconquistabili» sostituisca Chunga su quella sedia. E siamo, insomma, al cospetto di un’accolta di fantasmi: quando, nel secondo atto, José, Lituma, Josefino e Scimmia prendono ad esibire a turno la loro «interpretazione» della famosa notte fra la Chunga e Meche, lo fanno isolandosi nel chiuso della propria mente, e perciò restando invisibili, mentre lo fanno, agli altri giocatori, giusto come se si fossero trasformati in spettri.
Ma nemmeno una virgola di tutto questo è dato riscontrare nell’allestimento de «La Chunga» di cui Corsicato firma, oltre alla regia, anche le scene e i costumi.
Basterebbe, al riguardo, il fatto che il bar della Chunga viene spostato nel porto di Napoli e i quattro «inconquistabili» di Vargas Llosa vengono trasformati in marinai di una nave militare. E siccome l’elemento scenico che risalta è la selva di funi a cui quei marinai frequentemente s’attaccano, se ne deduce che la nave militare di Corsicato è un veliero. Dunque, è l’«Amerigo Vespucci», la nave scuola dell’Accademia navale. E voi ve l’immaginate gli allievi della «Vespucci» che – in divisa! – se ne vanno a giocare in un sordido, malfamato e peggio frequentato locale? E ve l’immaginate che uno di quei marinai sia, insieme, un militare e un pappone, che tra una mano e l’altra di gioco va ad intrattenersi nella citata Casa Verde e, per di più, propone a Chunga di aprire nel suo bar un consimile bordello?
Completano il quadro balletti nel più smaccato stile televisivo, canzoni di Lana Del Rey, campionamenti elettronici di Cliff Martinez e uno spogliarello di Meche che si conclude, inopinatamente, con la ragazza presa a bastonate da José, Lituma e Scimmia. Mentre il manifestare in una sorta di teatrino all’italiana semovente ciò che nel testo di Vargas Llosa accade solo nella mente degli «inconquistabili» significa affogare i moti dell’inconscio in una semplice e banalissima rappresentazione.
A ciò si aggiunga, poi, che il distanziamento fra gli attori imposto dal coronavirus impedisce, poniamo, che Josefino baci più volte in bocca Meche come prescrive il testo originale. Qui si limita, incomprensibilmente, ad accarezzarle i piedi. E così viene del tutto cancellato il rituale che con quei baci lo stesso Josefino intende porre in essere per ostentare davanti ai suoi compagni e soprattutto a Chunga il suo «status» di macho/padrone.

Pappi Corsicato

Pappi Corsicato

Finisce per impantanarsi in un simile groviglio di omissioni e falsificazioni anche la prova degl’interpreti. L’unica che si salva è Cristina Donadio, che dona a Chunga, giustamente, le stimmate di una dolorosa ieraticità. Francesco Di Leva, nella circostanza impegnato nel ruolo di Josefino, mi sembra che faccia sempre lo stesso personaggio. E per quanto riguarda la Meche di Irene Petris, che dire? Io il marinaio l’ho fatto davvero, sulle rotte transoceaniche; e di bettole infime ne ho conosciute parecchie, in ogni parte del mondo. Ma in nessuna di quelle bettole ho mai incontrato, né mai ho anche solo immaginato di poter incontrare, una come la Meche che ci propone Pappi Corsicato: sembra una stucchevole figurina da carillon a metà tra una fraschetta di borgata reduce dallo shopping in centro e la Marilyn con la gonna al vento di «Quando la moglie è in vacanza».
Dunque – se vogliamo essere seri e avere una sia pur minima speranza di uscire dal guado – dobbiamo dirci la verità. E la verità è che i teatri sono stati riaperti senza il teatro, ma solo con una debole, debolissima parvenza di teatro.
In breve, è stato giusto venire in aiuto dei lavoratori dello spettacolo scaraventati dal virus in una situazione drammatica, così come, d’altronde, è giusto andare in aiuto anche degli altri lavoratori (penso agli operai della Whirlpool) che si trovano in situazioni analoghe. Ma i lavoratori dello spettacolo producono qualcosa che è un po’ più «significante» rispetto a un frigorifero o a una lavastoviglie. E allora abbiamo il diritto (poiché quell’aiuto è pagato con soldi pubblici, cioè con i soldi nostri) di pretendere da loro il rispetto del patto che la concessione dell’aiuto stabilisce fra il palcoscenico e la platea.
Mi spiego, e mi auguro di essere sufficientemente chiaro. Un regista ha tutta la facoltà di leggere e persino di stravolgere un testo sulla base di proprie personali convinzioni e altrettanto personali gusti. Ma deve renderne conto agli spettatori, spiegando e motivando le sue scelte. E deve farlo sul palcoscenico, non nelle conferenze stampa e nelle interviste. Roberto Andò, il nuovo direttore dello Stabile di Napoli, ha annunciato una serie di incontri per riflettere sulla crisi del teatro. E ha ideato una sorta di questionario da rivolgere al pubblico degli abbonati, partendo dalle domande: «Qual è il suo legame col teatro?» e «Se lo è, perché il teatro è necessario?». Ecco, la risposta alle due domande presuppone che il teatro si faccia capire, ritrovando un sano rapporto dialettico con i suoi fruitori.

                                                                                                                                          Enrico Fiore

(«Corriere del Mezzogiorno», 5/7/2020)

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