Enzo Moscato: il piombo e il sangue

Enzo Moscato in una foto di Pino Miraglia

Enzo Moscato in una foto di Pino Miraglia

NAPOLI – Riporto il commento pubblicato ieri dal «Corriere del Mezzogiorno».

Non a caso Enzo Moscato si sta dedicando alla stesura della propria autobiografia. E non a caso quell’autobiografia, che sarà pubblicata da Cronopio, s’intitola «Archeologia del sangue».

Henrik Ibsen

Henrik Ibsen

Ho già citato, nell’articolo dedicato alla pratica della memoria come ancora di salvezza in questi giorni paralizzati, l’osservazione decisiva di Peter Szondi, secondo il quale i personaggi di Ibsen non possono, in un presente vuoto di azioni, che sedere «a giudici del loro passato ricordato». Ma, in particolare, fra i testi di Ibsen ce n’è uno che s’impone come un’autentica fotografia della situazione attuale. Parlo de «La donna del mare». Uno dei suoi personaggi, Bolette, dice amaramente: «Noi dobbiamo starcene buoni buoni e passar la vita nello stagno delle carpe». Mentre, quando Ellida gli chiede se, dopo che lei lo rifiutò, non abbia «pensato ad un altro legame», Arnholm risponde: «Mai. Son rimasto fedele ai miei ricordi». E poco prima il marito di Ellida, Wangel, aveva raccomandato allo stesso professore: «Parli con lei del passato, caro Arnholm. Le farà infinitamente bene».
Insieme, però, il Moscato che ricorda è cosa diversa rispetto alla pratica comune della memoria innescata dalla situazione contingente, in quanto il ricordo costituisce da sempre il motore inesausto della sua drammaturgia. Ho scritto al riguardo – nell’introduzione a «Gli anni piccoli», il libro in cui Enzo rievoca la sua infanzia e la sua prima adolescenza – che non esiste alcun altro teatrante che manifesti una presenza scenica intensa come quella di Moscato e, nello stesso tempo, come Moscato sia immancabilmente e strenuamente lontano dalla scena, poiché asserragliato, giusto, nella trincea del ricordo. Potrebbe far suo, Moscato, il motto di Carmelo Bene: «Io sono là dove manco».
Ora, Enzo mi ha fatto leggere, in anteprima, il racconto, «Plebee divinazioni», che ancora non a caso apre l’autobiografia in questione. E ancora una volta dico non a caso perché si tratta del racconto che non solo spiega il titolo «Archeologia del sangue», ma sottolinea il tema fondamentale dell’intera opera, quello relativo all’ossimoro che, per l’appunto, accoppia l’archeologia, la scienza che cerca, trova e studia i reperti dell’antichità, ossia qualcosa di inerte, e il sangue, l’elemento vitale per eccellenza, il simbolo stesso della vita.
«Plebee divinazioni» rievoca il rito che le «figliole» da marito – Luciella, Carmelina, Angelina, la sorella più grande di Moscato, Rafilina – compivano nel cosiddetto «Palazzo Scampagnato» dei Quartieri Spagnoli, in cui il futuro drammaturgo trascorse i primi dieci anni: scioglievano un pezzetto di piombo nell’acqua messa a bollire in un pentolino su un fuocherello di fortuna e dalle forme che assumeva il piombo fuso traevano presagi circa il loro destino, e segnatamente il matrimonio che tutte si auguravano.

August Strindberg

August Strindberg

Tale rito si svolgeva nell’«ora più tarda e fonda» della notte fra il 23 e il 24 di giugno, la notte che precede la festa di San Giovanni e che a Moscato appare, nel ricordo, «come la notte di tutte le notti – più della notte di Natale, più della notte della Befana! – che precedettero e seguirono quella dell’età che aveva allora». Perché, spiega Enzo, «era una notte senz’altro magica».
A me, però, viene in mente – e valga questa coincidenza a provare quanto ampio sia lo spettro di suggestioni e di rimandi messo in campo da «Archeologia del sangue» – che si svolge nella notte di San Giovanni, la notte più allusiva dell’anno, anche «La signorina Giulia» di Strindberg; e che anche ne «La signorina Giulia» di Strindberg si accenna a un rito: il rito, assai simile a quello delle «figliole» da marito del «Palazzo Scampagnato» di Moscato, che invoca il servo Jean quando, rivolto a Giulia, dice: «Dobbiamo dormire su nove fiori di San Giovanni, stanotte, così i nostri sogni si avvereranno!».
Non solo. Ciò che più conta è che ne «La signorina Giulia» prende corpo lo stesso ossimoro che spasima nell’autobiografia di Moscato. Strindberg, lo sappiamo, definì il suo atto unico «tragedia naturalistica». E l’apparente contraddittorietà della formula chiama in causa l’«impossibilità della tragedia» che in quel testo s’invera, forse per la prima volta nella storia del teatro contemporaneo. Ma, accanto a quest’«impossibilità», che possiamo considerare come un equivalente dell’inerzia dei reperti archeologici, si determina prepotente l’irrompere, per l’appunto, del sangue: Giulia si taglia la gola con un rasoio perché, datasi a Jean, è incapace di assumere quel cedimento all’impulso sessuale come un lucido gesto di rivolta contro la propria appartenenza di classe. E per giunta, a ribadire l’«immobilità» indotta da una simile assenza di conflitti etici e ideologici c’era stato il segnale premonitore della decapitazione del canarino della giovane.
Del resto, è sempre l’ossimoro, stavolta giocoso, che presiede al «catalogo» dei presagi tratti dal piombo fuso: tra i vari «E chisto, mò, chi è? E quanto “maronna” è brutto!» e «Angeli’! Angeli’! Vuo’ vede’ che poi ti sposi a un Marocchino? Magari, “O zio ‘e Nerone”!» s’insinua un «Guardate! Guardate! Guardate quello che è uscito a me da dentro all’acqua! Pare proprio un Marinaio! Tiene pure uno strano berrettino ‘ncopp’ ‘a capa! Bianco e blu, nun ‘o vedite?».

Sandro Penna

Sandro Penna

Io penso a Sandro Penna: «Le nere scale della mia taverna / tu discendi tutto intriso di vento. / I bei capelli caduti tu hai / sugli occhi vivi in un mio firmamento / remoto. / Nella fumosa taverna / ora è l’odore del porto e del vento. / Libero vento che modella i corpi / e muove il passo ai bianchi marinai».
Ma Enzo Moscato conclude il racconto mettendo a confronto le «figliole» del «Palazzo Scampagnato» che si sono sposate e l’unica fra loro, Carmela, che non ci è riuscita. Le altre, insieme con tanti figli, hanno avuto dai rispettivi «maritini» pure «tante belle corna». Sicché Moscato commenta: «E non è poco aver scansato questa brutta “mala” sorte, da parte di Carmela, o no? Oppure sono io che sbaglio! Che mi dite?».
Già, Moscato conclude con due interrogativi, che pone, insieme, a se stesso e a noi. Perché sa bene, come sappiamo tutti, che in questo periodo somigliamo ancora di più ai personaggi di Ibsen, e che, quindi, corriamo seri rischi se c’intratteniamo a immaginare un futuro affidato all’improbabile ipotesi del «meraviglioso» e del «miracolo».

Giovanni Testori (foto di Valerio Soffientini)

Giovanni Testori
(foto di Valerio Soffientini)

Ne «Gli anni piccoli», riferendosi alle rovine lasciate a Napoli dalla guerra, colui che oggi è il maggior drammaturgo italiano scrisse: «Ecco, io sono nato, forse, da uno di quei bruciacchiati resti. Con una parte di me legata a quell’antica, resistente struttura di marmo e travertino, abituata, come nessun altro mai, alle ingiurie o ai matti scherzi della danza del fuoco, e un’altra, protesa più in là, non in uno spazio o in un tempo precisi, non attaccata a qualcuno o a qualcosa di stabile e concreto, ma nel Vuoto, nel Nulla, nell’In-esistente e In-declinabile, Assoluti».
In altri termini, dobbiamo, rispetto al futuro, piegarci ad essere non più pellegrini, ma, per dirla con Cacciari, «viandanti senza nostalgia della casa». Non possiamo più gridare, con la Irina di Cechov, «A Mosca! A Mosca! A Mosca!». Possiamo solo riconoscerci nella malinconica ma impavida constatazione di Testori: «Come si fatica, arrivati qui, / in questo punto della storia, / a pronunciare le parole / come se fossero ancora vive, / come se le inventassimo noi, adesso e qui, / per la prima volta!».

                                                                                                                                          Enrico Fiore

(«Corriere del Mezzogiorno», 18/4/2020)

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