Quelle fiamme nel ghetto di Viviani

L'ex II Traversa Marchese De Turris, oggi via Viviani

L’ex II Traversa Marchese De Turris di Castellammare, oggi via Viviani

NAPOLI – Riporto la rievocazione pubblicata oggi dal «Corriere del Mezzogiorno».

Si parla, in questi giorni, delle precarie condizioni abitative in cui dalle nostre parti vivono molti, così come si racconta o si auspica la solidarietà nei confronti degli ultimi. E a me è tornato in mente un episodio relativo al fatto che trascorsi tutta l’infanzia e l’adolescenza in una strada di Castellammare che si chiamava II Traversa Marchese De Turris e faceva angolo – nella piazzetta detta Caporivo, in dialetto «’a Caperrina» – con la I Traversa Marchese De Turris. Un angolo dal quale si partiva una salita che portava all’Istituto dei Salesiani, dove noi ragazzi la domenica mattina andavamo a sentire la Messa in cambio di un talloncino che ci dava il diritto di assistere nel pomeriggio alla proiezione di un film.
La I Traversa Marchese De Turris era il regno di una puttana bionda. E se comunissimo era il suo nome, Maria, misteriosissimo era il suo soprannome: dal momento che la chiamavano «‘a cecata» sebbene ci vedesse benissimo. Ci vedeva tanto bene che – venni a saperlo perché con gli anni eravamo diventati amici – subito vide che cosa doveva fare quando i tedeschi in fuga andavano rastrellando i giovani di Castellammare da deportare in Germania: Maria «‘a cecata», rischiando la pelle, nascose non pochi di quei giovani nel suo «basso». E chissà se, diventati persone perbene, quegli ex giovani si son mai ricordati che avevano potuto diventare persone perbene grazie alla puttana Maria soprannominata «‘a cecata».
E fu lei, Maria «‘a cecata», che ai primi di febbraio del ’77 – quando lavoravo a «Paese Sera», facendo tra l’altro il cronista di «nera» (Ennio Simeone, il capo della redazione napoletana di quel giornale, diceva che la «nera» andava raccontata come un grande romanzo popolare) – mi si mise al fianco nell’inferno che si scatenò accanto al suo «basso».
Alle dieci del sabato mattina successivo, all’imbocco del vico Cantore, proprio a metà della I Traversa Marchese De Turris, marcivano al sole con altra immondizia le carogne bruciacchiate di alcuni polli. Abitavano anch’essi, fra mucchi di stracci, nella cosiddetta «casa» in cui la sera del giovedì precedente era morta tra le fiamme Genoveffa Apuzzo. Una bambina di sei anni che ci raccontò con la sua fine una storia che sembrava appartenere a tempi lontani.
Tante volte si adoperano negli articoli di giornale le similitudini «vivere come bestie» e «una vita da cani». Al vico Cantore, però, ancora nel ’77 tali similitudini erano fatti: in quel budello intricato di catapecchie spesso col tetto sfondato, gli esseri chiamati umani e le bestie si scambiavano identità e ruoli, nel senso che condividevano uno spazio e un destino assolutamente identici per gli uni e le altre. Nei «bassi» lasciati liberi dalla fuga verso posti migliori dei più fortunati fra gli animali «uomini» s’erano insediati quelli che erano animali e basta: i cavalli di vari venditori ambulanti che avevano trasformato quei «bassi» in stalle. Proprio sopra quelle stavano le «stalle» degli animali «di adozione». E sul selciato sconnesso del vico, stretti fra i muri cadenti e grondanti umidità, s’incontravano a cercar aria i cani randagi e i bambini.
Vico Cantore era l’emblema di un intero quartiere degradato dalla logica dello sviluppo capitalistico e dei gruppi politici che a Castellammare spadroneggiarono per decenni, quelli raccolti nella Democrazia Cristiana dei Gava: espulsa la classe operaia, e confinata in un altro ghetto al capo opposto della città per lasciare il centro a disposizione della speculazione edilizia, nella zona vecchia era rimasto il sottoproletariato. Gran parte dei commercianti si erano trasferiti, la gente che era rimasta aveva dovuto inventarsi nuovi mestieri. La prostituzione era fiorita, davvero, come un esempio concreto della famosa «economia del vicolo», e intorno ad essa non erano pochi i giovani che sopravvivevano facendo la guardia alle macchine dei clienti delle case chiuse più o meno clandestine.

Raffaele Viviani al tavolo di lavoro

Raffaele Viviani al tavolo di lavoro

«Lei aiutava la baracca andando a fare le pulizie in parecchie di quelle case. E il marito non voleva, perciò spesso litigavano. Lui andava in giro a trasportare roba varia col suo furgoncino. Così la bambina – era nata menomata di mente, a sei anni a stento sapeva chiamare il padre e la madre, però capiva, stava sempre nel vico a giocare abbracciata coi cani – la lasciavano spesso sola dentro quelle due stanze. Già due o tre giorni fa una vicina mi chiamò perché dalla casa degli Apuzzo arrivava odore di bruciato. Trovai la pentola vuota sul fornello del gas acceso: l’acqua messa a bollire era completamente evaporata, l’alluminio della pentola era diventato nero e nell’altra stanza, sul letto, Genoveffa piangeva terrorizzata».
Questo mi disse più tardi Ferdinando Buononato. Faceva il vetturino, aveva la stalla proprio sotto le due stanze andate a fuoco. Ed era stato fra i primi ad accorrere, quando ancora non si sapeva che la bambina – trovata poi carbonizzata in un armadio dove forse aveva cercato rifugio nel tentativo di scampare alle fiamme – era rimasta chiusa dentro. A stento era riuscito a tirar fuori il cavallo.
«Uno sputafuoco, sembrava l’eruzione del Vesuvio». Ciro Lo Schiavo, che faceva l’acquafrescaio e teneva anche lui un cavallo in uno dei «bassi» trasformati in stalle, aveva cercato di entrare dal balcone della stanza da letto degli Apuzzo, insieme con altri del quartiere, appena s’era saputo che Genoveffa era prigioniera dell’incendio. E fra loro c’eravamo anch’io, che corsi con una fitta nel cervello subito dopo la telefonata del giornale che mi spediva lì per scrivere il pezzo, e Maria «’a cecata». Salimmo proprio sul tetto della casupola che costituiva la «stalla» di Genoveffa. Ma non ce la facemmo ad entrare, perché la corrente d’aria stabilitasi fra la porta e il balcone vomitava da entrambi una cortina insuperabile di fiamme.
Ciro Lo Schiavo, quella sera in vico Cantore, riusciva soltanto a mormorare fra sé e sé: «Il Signore ci deve liberare da queste disgrazie, perché possono capitare a uno qualsiasi di noi».
Un altro di quelli che avevano tentato di salvare la bambina gridò improvvisamente: «Questa è la classica vita da ghetto». Mi dissero che si chiamava Gigino, faceva l’imbianchino. Però Gigino non aveva considerato la faccenda nella sua dimensione completa. Avevamo una bambina nata col cervello malato in una famiglia torturata dalla miseria (con lei e con i genitori erano accampati nelle due stanzette di vico Cantore due sorelle e due fratelli, la più grande di quindici anni) e abbrutita da mestieri precari o infamanti; una bambina vissuta per sei anni in un intrico di muri cadenti e grondanti umidità, fra le bestie che avevano occupato quelle che un tempo erano state le case degli uomini.
Quella non era vita, nemmeno una vita da ghetto. Era l’infamia della vita. Pareva di leggere un brano di un romanzo d’appendice di Francesco Mastriani, con tutti gl’ingredienti del caso debitamente studiati ed elencati a tavolino per stupire e commuovere i borghesi. Invece non era un fumettone nero.
Non a caso, forse, poco lontano da vico Cantore, proprio in quella II Traversa Marchese De Turris dove io avevo trascorso l’infanzia e l’adolescenza e che oggi è intitolata a lui, nacque Raffaele Viviani, che cantò la violenza e la disperazione di tante «Bammenelle ‘e copp’ ‘e Quartiere». E che sapeva anche lui di certe sere, e di ciò che in certe sere può accadere durante la vana attesa del ritorno a casa di un muratore caduto dall’impalcatura: «L’acqua p’ ‘o troppo vòllere / s’è strutta ‘int’ ‘a tiana, / ‘o ffuoco è fatto cénnere. / Se sente ‘na campana».

                                                                                                                                          Enrico Fiore

(«Corriere del Mezzogiorno», 9/4/2020)

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2 risposte a Quelle fiamme nel ghetto di Viviani

  1. Barbara Basso scrive:

    Una storia terribile, davvero commovente. In questi tempi che hanno sconvolto le nostre abitudini dovrebbe aiutarci a pensare agli ultimi, a chi rischia anche oggi di trovarsi seriamente in difficoltà, a chi lo è già, tenendo a mente che il Paese che racconti in fondo non è nel passato, non è così passato.
    Ricordo di aver vissuto da ragazzina per alcuni mesi in campagna, senza bagno in casa. Sul retro della cascina una latrina, il bagno si faceva in una tinozza di legno (per noi bambini un momento di giochi e di festa). Succedeva a metà degli anni Ottanta, non nel profondo Sud, ma nell'”operoso” Nord Ovest.
    Gli strumenti per informarci che abbiamo oggi, non certo infallibili, sono tali però da sottrarci a ogni possibile alibi. Torneremo presto nel mondo e non avremo più scuse.
    Grazie, maestro!
    Un caro saluto.
    Barbara Basso

  2. Enrico Fiore scrive:

    Un caro saluto anche a te, Barbara. E, naturalmente, ancora un grazie per l’attenzione che riservi a quanto vado scrivendo.
    Enrico Fiore

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