Spoon River con Castello

Il castello medievale di Castellammare

Il castello medievale di Castellammare

NAPOLI – Riporto la rievocazione pubblicata ieri dal «Corriere del Mezzogiorno».

Lo scritto che segue – dedicato a Castellammare, la città in cui ho trascorso molta parte della mia vita – fu pubblicato come elzeviro, il 26 novembre 1966, nella pagina della cultura del «Roma». Era intitolato «Giorni perduti» e firmato con lo pseudonimo Lorenzo Orfei (Lorenzo è il mio secondo nome di battesimo e Orfei è l’anagramma di Fiore) perché in quel periodo scrivevo anche per «Il Tempo». Mi sembra che vi circoli un’atmosfera piuttosto simile alla sospensione nella quale ci troviamo oggi.                                                                                                                                                                                                            (E.F.)

Era una città di provincia, una delle tante. Forse anche bella, in fondo le sue strade si squadravano diritte e la geometria delle case accoglieva con sufficiente imparzialità il sole che si levava tardo al mattino, faticando a superare la cresta della montagna di faccia al mare. Ma era come sospesa in una dimensione fuori del tempo, o almeno così sembrava a lui, che non l’aveva mai veramente vissuta e pure ne respirava con ansiosa protervia i giorni e le ore.
E della provincia la città non aveva affatto le consuete caratteristiche, né gli slanci patetici ma appassionati: l’immutabile sfilare della gente sul lungomare, nelle sere di festa tra i palloni colorati, conservava soltanto il languore di un’abitudine, ormai cristallizzata nella paziente attesa di una misura possibile; e la vecchissima giostra a fianco del campo di tennis, periodicamente riattintata di giallo e di rosso, nessuno la guardava più, era come la sbavatura di vernice di un pittore distratto.
Di matti ce n’erano, nella città; ma non costituivano, come di solito accade, il divertimento preferito di piccoli e grandi. Perché nella città la benefica istituzione dello scemo del paese era sconosciuta: e gli abitanti, del resto, non sentivano il bisogno di una pietra di paragone alla quale appoggiarsi, loro tiravano innanzi assennati e tranquilli. Soltanto qualcuno, i vecchi che tornavano all’alba dal mare ed erano stati a spaccare gli scogli per cavarne fuori i cannolicchi, si fermavano a parlare nel bar che restava aperto tutta la notte, e parlavano del matto col ventre enorme, che prima era stato valoroso sergente in Marina e poi la guerra gli aveva stravolto il cervello e ora dormiva sulle panchine della villa comunale… e qualche volta ti fermava a chiedere un cerino per la sigaretta ed era pieno di cimici e il Comune non faceva niente per ricoverarlo in un ospizio ed era uno sconcio per i turisti.
C’erano anche due che s’incontravano spesso e spesso si lasciavano, ma finivano sempre per ritrovarsi, magari a distanza di anni. Erano stati insieme alle elementari, e ricordavano lo stesso maestro dalla lunga e severa figura, quello che immancabilmente affidava a loro due – allora avevano entrambi una calligrafia chiara e rotonda, e anzi uno era riuscito a conservarla così, come se il tempo non fosse passato – il compito di scrivere sulla lavagna. E di quel maestro rammentavano pure una borsa di pelle scura, che egli accollava ai più discoli perché gliela portassero a casa e pesava da indolenzire il braccio e nessuno era mai riuscito a capire che cosa contenesse per essere tanto pesante.
Uno dei due, qualche anno prima, si era innamorato di una ragazza, o almeno aveva creduto di esserlo. Una ragazza bionda e sottile, ma spigolosa come il vento che correva le strade della città. Ci aveva fatto a lungo l’amore, è vero, ma poi si erano lasciati; ed ora lo raccontava all’amico, quando s’incontravano, perché poi aveva ritrovato quella ragazza e pareva che tutto potesse ricominciare da capo, anche se lui non ne era tanto sicuro. E l’altro, che stava ad ascoltarlo per ore, si chiedeva sempre come mai gli venissero a parlare di certe cose: ma poi capiva, perché in fondo loro due erano soli e la storia lo interessava, era sempre la solita storia.

Il cimitero di Spoon River fotografato da William Willinghton

Il cimitero di Spoon River fotografato da William Willinghton

Qualche volta si sedevano davanti alla porta del circolo sportivo, assieme ad altra gente, ed avevano per panorama luci lontane sull’acqua buia. Dall’albergo vicino trasparivano fino a loro suoni di chitarra e di fisarmonica – probabilmente una festa di nozze, e non sapevano se invece fossero le musiche del film che davano nel cinema all’angolo. Tuttavia, continuavano a discorrere, e a turno l’uno parlava e l’altro ascoltava.
Intorno a loro l’attenzione si concentrava quasi sempre sul «capitano», e le lampade al neon dell’ingresso calavano in un singolare biancore le chiazze rossicce del suo viso, sotto una ragnatela di vene azzurrine. Probabilmente non era un vero capitano, ma aveva condotto bragozzi lungo la costa e durante le feste patronali commentava da competente gli arabeschi dei fuochi artificiali, appuntando su un immaginario taccuino, dalla terrazza del circolo, i «numeri» più interessanti, il «filo liscio», la «botta con la chiamata», le rutilanti granate del gran finale.
Spesso si calcava sul cranio per buona parte calvo un largo e strano cappello, forse il berretto che Blaise Cendrars vide in un film e sembrava un leopardo, ché come quello evocava palpitanti e indecifrabili reminiscenze. Al «capitano» piaceva vantarsi di una solida e saporosa esperienza di vita, così raccontava interminabili avventure ricche di pranzi favolosi e di solenni bevute e apostrofava qualsiasi ragazzo con sostenuta bonomia. «Cosa credi, tu non sei che l’ultimo da poppa!». E di avventure i soci anziani del circolo gli facevano volentieri credito, perché di avventure non ne conoscevano e tutt’al più, quando la notte era calma, andavano a remi, con il cuffiotto di lana calzato fin sulle orecchie, a pescare sotto le fiancate rugginose delle navi nel porto.
A camminare di notte per le strade della città, poteva capitare d’imbattersi sul Corso nella nuova garitta dei carabinieri con le scritte luminose in rilievo, che tuttavia stava lì già da diversi giorni; e anche questo pareva straordinariamente nuovo, come lo scheletro di cemento armato di un palazzo che sorgeva all’improvviso nella corona scavata di muri in demolizione e dava l’impressione di una ferita. Ma tutto ciò capitava soltanto ad ora assai tarda, quando ogni finestra era spenta e perfino i televisori raccoglievano il silenzio, dopo l’ultimo telegiornale e l’ultimo gol di Sivori, che era stato molto bello e – che diamine!, la solita sfortuna – il Napoli poteva anche vincere.
Nella città c’erano anche altri posti in cui ci si poteva vedere. Il «barone» li conosceva e vi centellinava – un caffè corretto, una sambuca con la «mosca» – il vivere quotidiano. A nove anni una goccia di acido gli aveva bruciato un occhio, e qualche anno più tardi, poiché al mondo aveva soltanto la fame, se n’era andato all’estero e quasi dappertutto si era lasciata dietro una donna. Ora qualcuna gli mandava più o meno regolarmente dei soldi e così era diventato «il barone» e stava sempre sul piede di partenza: ma raccontava di quando nella sua camera di Zurigo gli veniva da piangere tutte le volte che ascoltava la «Sonata al chiaro di luna di Chopin»; e raccontava della carrozzella di Troiano e del suo cavallo, che non voleva saperne d’imparare a trottare e invano Troiano, su per la salita della Panoramica, gli spiegava che bisognava spingere innanzi prima la gamba sinistra e poi la destra e il cavallo non capiva, forse perché non sapeva quale fosse la destra e quale la sinistra. E nonostante fosse sempre sul piede di partenza, il «barone» diceva che sarebbe stato bello andare tutti insieme una sera sulla carrozzella di Troiano per la strada panoramica e che non aveva nessuna importanza se il cavallo non sapeva trottare e Troiano era un soprannome e il cavallo si chiamava soltanto «il cavallo di Troiano».
Lui non voleva crederci, ma a poco a poco la città gli era penetrata sotto la pelle come tante scaglie di vetro. Un trattamento indolore, tuttavia, al quale si era assuefatto senza rendersene colto. Talvolta l’abbraccio delle strade lo stringeva ruotandogli attorno in una serie ininterrotta di dolci oscillazioni, più spesso era una presenza minacciosa ma tranquilla in un magma indistinto di pensieri e di sensazioni. Poi, quando gli anni erano passati, egli ch’era stato sempre convinto d’essere diverso dagli altri si accorse d’essere proprio come gli altri. E ora che nessuna filosofia gli si riscaldava nella coscienza, ora che nessuna religione gli si accucciava nel cuore, pensava che era giusto: che vivevano tutti, così, in attesa di giorni migliori.

                                                                                                                                          Enrico Fiore

(«Corriere del Mezzogiorno», 27/3/2020)

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