Silenzi e parole malate nell’Europa tra le due guerre

Emmanuelle Béart e Laurent Poitrenaux in un momento di «Architecture» (le foto dello spettacolo che illustrano questo articolo sono di Jean Louis Fernandez)

Emmanuelle Béart e Laurent Poitrenaux in un momento di «Architecture»
(le foto dello spettacolo che illustrano questo articolo sono di Jean Louis Fernandez)

BOLOGNA – Davvero non a caso compare solo il punto interrogativo e per il resto la punteggiatura è assente. Perché al centro di «Architecture» – il testo di Pascal Rambert che il 4 luglio dell’anno scorso aprì nella leggendaria Cour d’Honneur del Palazzo dei Papi il festival di Avignone e adesso è approdato in «prima» nazionale all’Arena del Sole, nell’ambito della quindicesima edizione del Vie Festival promosso da Emilia Romagna Teatro – deflagra proprio il problema del linguaggio.
Si tratta del problema che già veniva affrontato in un altro dei più noti testi di Rambert, «Clôture de l’amour»: del problema, cioè, di far coincidere le parole e la vita. Ma allora lo si affrontava in relazione, per l’appunto, all’amore, mentre qui lo si affronta in relazione a qualcosa che con l’amore c’entra assai poco, ovvero i trent’anni terribili percorsi dall’Europa fra le due guerre mondiali. Come (e, giusto, con quali parole) raccontarli?
Rambert li rilegge attraverso il ritratto emblematico di una famiglia di alto rango (sono tutti scienziati, filosofi, medici, scrittori, compositori, pittori, giornalisti, attori) ma soggiogata da un altrettanto emblematico padre folle e violento. E il titolo della pièce si riferisce non solo e non tanto alla professione esercitata da quel padre, bensì, anche e specialmente, all’«edificio» da ideare (sarebbe molto meglio dire proprio architettare) e da erigere sulle macerie lasciate dal trentennio in questione.
Inutile sottolineare che l’alto rango della famiglia messa in campo dal drammaturgo e regista francese è una metafora della ricchezza spirituale e culturale dell’Europa. Ma ecco il punto. Tutti i componenti di quella famiglia hanno speso la vita nel culto del pensiero e della bellezza, ma tutti, nello stesso tempo, sono stati incapaci di fronteggiare l’orrore che dilagava. Uno dei personaggi lo dice come più chiaramente non si sarebbe potuto: «Eravamo intellettuali artisti lavoratori e non sappiamo dire no all’onda che arriva seguiamo il gregge siamo accecati dai canti gli slogan la stupidità la lingua ci inganna e dalle nostre bocche esce il contrario di quel che vogliamo».

Pascal Rambert (foto di Marc Domage)

Pascal Rambert
(foto di Marc Domage)

In breve, dietro Rambert c’è Wittgenstein. Una delle principali tesi sostenute nel «Tractatus logico-philosophicus», lo sappiamo, riguarda proprio il fatto che il linguaggio traveste la realtà come un vestito traveste il corpo: nel senso che ne rivela determinate forme fondamentali ma ne cela altre. Wittgenstein, insomma, ritiene che il linguaggio non può rivelare «tutta» la realtà. E sta in questo la radice dell’«inganno» di cui parla Rambert: un «inganno» che appare quale colpa incancellabile se valutato alla luce spettrale degli anni che portarono all’Anschluss.
Spietato e amarissimo è il commento che il giornalista fa in proposito, riprendendo il discorso del personaggio citato sopra: «[…] le parole come pesci per evitare l’asfissia si rivoltano e dicono il contrario di ciò che dicevano i miei compagni non hanno più volto tutti tacciono tutti pensano nel loro silenzio e se ci fossimo sbagliati il dubbio si insinua non vediamo né la fine dei giorni né la fine delle notti la mia rivista è orfana il mio taccuino è orfano pieno di spazi bianchi tra le parole dire è diventato una bocca sdentata da cui cola il sangue di idioti che come me hanno creduto ai maghi della parola».
Dovremmo, sempre sulla traccia di Wittgenstein, trovare per il linguaggio una «forma generale» che possa guarirlo dalla «malattia filosofica» insita, si direbbe costituzionalmente, nella sua base stessa, in quel suo peregrinare tra «essenza» e «convenzione», fra «naturalità» e «artificialità», e nell’esigenza di adattarsi senza sosta alle nuove «forme di vita» che sorgono nell’ambito delle istituzioni e delle attività umane. E qui si determina l’acme drammaturgico di «Architecture».
C’è chi si arrende, come il personaggio che dichiara: «[…] se il linguaggio non riesce a dire allora scegliamo il silenzio». E ci sono, all’opposto, la lei e il lui che fanno l’amore in una delle scene più spinte e, insieme, più commoventi del teatro degli ultimi anni. Dice la donna: «[…] finiremo tutti in ginocchio con una pallottola in testa ma prima vienimi in bocca». E quando l’uomo dice e ripete: «godo», lei gli risponde: «di’ le parole di’ le parole di’ le parole non fermarti di’ le parole di’ le parole altrimenti siamo perduti».
I francesi, è noto, chiamano l’orgasmo «la piccola morte». Ma proprio in questo sta il messaggio che manda il complesso e profondo testo di Rambert: il bisogno delle parole e il dovere di dirle acquistano forza maggiore per l’appunto nel momento in cui moriamo a noi stessi, come per qualche attimo avviene nell’orgasmo qui richiamato sotto specie di simbolo. E torna in mente la chiusura di «Prima del silenzio» di Patroni Griffi, il più appassionato grido che, riecheggiando Beckett, nei decenni recenti si sia levato da un palcoscenico in nome della dignità di esistere: «Ogni uomo che muore / risorge in un altro che nasce. / La parola che non trova asilo / nella bocca dell’uomo / è già la morte – senza resurrezione».

Jacques Weber e Marie-Sophie Ferdane in un altro momento dello spettacolo, diretto dall'autore

Jacques Weber e Marie-Sophie Ferdane in un altro momento dello spettacolo, diretto dall’autore

In quanto regista, poi, Rambert dispiega una serie pressoché ininterrotta d’invenzioni, e l’una più strepitosa dell’altra. A partire dal fatto che – dando pieno ed eclatante sviluppo alla caratteristica-chiave del testo, quella per cui i personaggi vengono designati solo col nome di battesimo degli attori che li interpretano – trasforma lo spettacolo nella prova di uno spettacolo.
Nell’installazione dello stesso Rambert il fondale è costituito da una batteria di Revox, affiancati e collocati su piedistalli, come idoli o busti riecheggianti un’epoca lontana. Giacché, per l’appunto, i personaggi che vediamo e ascoltiamo non esistono qui e ora, ma sopravvivono unicamente sotto specie delle tracce (le voci senza corpo) lasciate dal loro passato e dalla loro storia nei nastri di quei registratori. Lo dichiara in maniera inequivocabile la donna che a un certo punto esclama: «La mia voce è qui il mio corpo non è affatto qui». Con l’aggiunta: «[…] sono nei nastri sono nei nastri che girano c’è la mia vita lì dentro e giro ed è abbastanza chiaro che strada facendo mi perdo».
Proprio così. Tutti i personaggi in campo si perdono: nell’ascoltare in cuffia quei nastri, nel mettersi in cerchio a fare esercizi di concentrazione tenendosi per mano, nello sciamare qua e là come uccelli impazziti, nell’isolarsi alla ribalta in lunghi monologhi. Finché si abbandonano a un valzer stranito. Che, ovviamente, richiama subito alla mente quello di Leonard Cohen, in cui, non a caso, si parla di Vienna al pari di quanto fa il testo di Rambert: «[…] Questo valzer, questo valzer, questo valzer. / Con il suo respiro di brandy e di Morte. […] Prendi questo valzer, prendi questo valzer. / È tuo adesso. / È tutto quel che c’è».
Ma l’invenzione capitale di Rambert, quella che riassume ed esalta l’operazione «Architecture» nel suo complesso, risiede nel fatto che la donna della scena spinta di cui sopra compare paralizzata su una sedia a rotelle. Così quella scena da spinta diviene tremenda, si veste di strazio e d’angoscia. L’uomo e la donna che vi prendono parte non sono che quel che sono stati, bloccati per sempre nella loro incapacità di dare un seguito purchessia al loro passato. E ancora di più si veste di strazio e d’angoscia, quella scena, perché, nella circostanza, la parola si denuda fino a incarnare senz’alcun filtro il suo destino eterno, consistente di grazia e maledizione insieme. Il destino di pretendere di ridurre il mondo a se stessa e nel contempo d’essere conscia della separatezza del mondo da se stessa.
Adesso, e avviandomi a concludere, non dico che gli attori qui in campo sono bravi. Emmanuelle Béart, Audrey Bonnet, Anne Brochet, Marie-Sophie Ferdane, Arthur Nauzyciel, Stanislas Nordey, Denis Podalydès, Pascal Rénéric, Laurent Poitrenaux e Jacques Weber, tra i migliori di Francia, sono gli attori con i quali Rambert ha lavorato negli ultimi otto anni, così come «Architecture» (e l’ho dimostrato con il riferimento a «Clôture de l’amour») è la somma delle altre opere di Rambert. E dunque questo spettacolo trova la sua monumentalità, la sua sofferenza e la sua gloria nel fatto che è un riepilogo.
«Architecture», in definitiva, s’identifica con la difesa estrema che sempre mette in atto il teatro, il tentativo di ricondurre la memoria a un’azione nel presente.

                                                                                                                                           Enrico Fiore

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