Santo Wilde, esteta e imputato

Giovanni Franzoni in un momento di «Atti osceni. I tre processi di Oscar Wilde», in scena al Bellini (le foto che illustrano questo articolo sono di Laila Pozzo)

Giovanni Franzoni in un momento di «Atti osceni. I tre processi di Oscar Wilde», in scena al Bellini
(le foto che illustrano questo articolo sono di Laila Pozzo)

NAPOLI – «Non aver paura del passato. Se ti dicono che è irrevocabile, non credergli. Il passato, il presente e il futuro non sono che un solo momento agli occhi di Dio. Tempo e spazio sono semplicemente delle condizioni accidentali del pensiero. L’immaginazione li può trascendere».
È la citazione dal «De Profundis» che apre «Atti osceni. I tre processi di Oscar Wilde», il testo dell’autore e regista newyorkese di origine venezuelana Moisés Kaufman che il Teatro dell’Elfo presenta al Bellini per la regia di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia. Ma, per la verità, il passo in questione, collocato in posizione fortemente icastica, verso la fine del «De Profundis», suona (adopero l’insuperata traduzione di Oreste Del Buono) come segue: «Non aver paura del passato. Se la gente ti dice che è irrevocabile, non crederci. Il passato, il presente e il futuro son solo un momento agli occhi di Dio, alla vista del quale dovremmo cercare di vivere sempre. Il tempo, lo spazio, la successione e l’estensione sono semplici, accidentali condizioni del pensiero. L’immaginazione può trascenderli in una libera sfera d’esistenze ideali. Anche le cose sono nella loro essenza quel che vogliamo fare di esse. La realtà d’una cosa dipende dal modo in cui la si guarda».
Dunque, la traduzione adottata nella circostanza, quella di Lucio De Capitani, risulta – in confronto al testo originale di Wilde – imprecisa e incompleta. E, al di là dell’esempio di cui sopra, costituisce un’autentica spia d’allarme circa la debolezza, insieme strutturale e formale, dello spettacolo in parola: mentre era lecito attendersi che, attraverso quei processi, si mettesse in luce la valenza letteraria e, soprattutto, ideologica dello scrittore dublinese, a conti fatti dobbiamo constatare che Kaufman si limita (almeno secondo la versione del suo testo che ci viene offerta) proprio alla nudità e alla schematicità cronachistiche annunciate dal titolo.
Ecco, allora, che si susseguono – provocando persino noia – gl’interrogatori e i controinterrogatori dei testimoni, in specie i giovinastri con i quali Wilde si accompagnò, alternati ad intervalli più o meno regolari con citazioni da opere varie che della vicenda umana e giudiziaria di Wilde si occuparono (poniamo, dall’«Autobiografia di Lord Alfred Douglas» a «Oscar Wilde» di Frank Harris, da «Lord Alfred Douglas» di Harford Montgomery Hyde a «Oscar Wilde» di Sheridan Morley), con l’aggiunta – scontata – dei commenti dei giornali dell’epoca e di taluni personaggi illustri, come George Bernard Shaw; e insistente, troppo insistente, appare l’attenzione rivolta, nell’evocare quegl’interrogatori, ai toni ambigui o, addirittura, a particolari di grana grossa quali le macchie «strane» che la governante di un albergo di St. James’s Place trova sulle lenzuola «dopo le visite del signor Wilde».
In sostanza, l’impatto straordinario che il pensiero e l’opera di Wilde ebbero con la morale vittoriana e, di più, con le teorie conservatrici in fatto di arte e di rapporti dell’arte con la vita e la società si riduce all’eco che ne risuona in una dichiarazione all’autore di Marvin Taylor, studioso dello scrittore alla New York University e co-editore del libro «Leggere Wilde»: «[…] quello che stavano cercando di fare in quel processo era di ridurre tutto all’omosessualità, di ridurre a quello tutto il potenziale sovversivo di Wilde, un potenziale che riguardava un sacco di cose: i rapporti di classe, di genere, la sessualità, uhm, e ce l’hanno fatta, con grande successo. Ma naturalmente ormai lui aveva piantato nella cultura occidentale i germi di quelle idee che, come ben sai… sono ancora lì».

In senso orario, Ciro Masella, Giovanni Franzoni e Riccardo Buffonini in un altro momeno dello spettacolo

Masella, Franzoni e Buffonini
in un altro momento dello spettacolo

Chiudo le osservazioni a proposito della riduttività del testo di Kaufman con un altro esempio, riferito ancora al «De Profundis». Qui se ne cita il passo: «Non mi pento neanche per un attimo di aver vissuto per il piacere. L’ho fatto fino in fondo, come si dovrebbe fare qualsiasi cosa. Volevo mangiare il frutto di tutti gli alberi del mondo. Ho vissuto di ambrosia!» ma se ne tacciono le ultime parole che Wilde rivolge a Bosie: «Sei venuto a me per conoscere il piacere di vivere e il piacere dell’arte. Forse io sono destinato a insegnarti qualcosa di ben più stupendo: il significato del dolore, la sua bellezza».
In definitiva, per parafrasare il titolo del celebre saggio dedicato da Sartre a Genet, si potrebbe (e sempre stando alla versione che ne propone il Teatro dell’Elfo) intitolare il testo di Kaufman «Santo Wilde, esteta e imputato». E non resta, di conseguenza, che prendere atto dell’aspetto divulgativo comunque mostrato dallo spettacolo: che, però, sconta una regia caratterizzata dall’accavallarsi e dallo scontrarsi di toni svarianti, senza una strategia comprensibile e/o accettabile, fra il grottesco, il magniloquente e il lacrimevole. Con annessi microfoni, gran viavai di sedie durante le udienze in tribunale e i marchettari che, in linea con una fotografia ottocentesca proiettata sul fondale, esibiscono i capezzoli nudi al di sopra di corsetti femminili.
Uno spettacolo, insomma, che alternativamente volge la materia trattata o in uno straniamento addirittura macchiettistico o in un naturalismo inopportunamente ed esageratamente tragico. E in tanta confusione annega anche la prova, pur impegnata e tecnicamente apprezzabile, che il bravo Giovanni Franzoni fornisce nel ruolo di Wilde, affiancandosi, fra gli altri, a Riccardo Buffonini (Lord Alfred Douglas), Ciro Masella (il marchese di Queensberry, l’avvocato Gill e il procuratore Lockwood), Nicola Stravalaci (l’avvocato Carson e il giudice) e Giuseppe Lanino (l’avvocato Clarke).
Finisce con tutti gli attori (tranne Buffonini hanno assunto anche il ruolo del narratore) che recitano, un passo a testa, «La Casa del Giudizio», la poesia in prosa che Wilde compose un anno dopo essere uscito di prigione: «all’Inferno io ho sempre vissuto» e «mai, e in nessun luogo, sono riuscito a immaginare il Paradiso». Quindi calano le luci e gli attori si voltano con le spalle al pubblico, restando immobili dinanzi a una gigantesca fotografia dello scrittore. Proprio, per l’appunto, come fedeli davanti all’altare di un santo.

                                                                                                                                          Enrico Fiore

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