Il monsignore e la perpetua nella trincea della tradizione

Da sinistra, Patrizio Trampetti e Peppe Barra in un momento de «I cavalli di Monsignor Perrelli» (le foto che illustrano questo articolo sono di Dilio Lambertini)

Da sinistra, Patrizio Trampetti e Peppe Barra in un momento de «I cavalli di Monsignor Perrelli»
(le foto che illustrano questo articolo sono di Dilio Lambertini)

NAPOLI – Riporto il commento allo spettacolo «I cavalli di Monsignor Perrelli» pubblicato ieri dal «Corriere del Mezzogiorno».

Come sappiamo, nella nostra immobile, disastrata e confusa città non si fa altro che parlare della napoletanità e della tradizione. Ma, sappiamo anche questo, la napoletanità è identica alla fede degli amanti di metastasiana memoria: «che vi sia, ciascun lo dice; / dove sia, nessun lo sa»; e per quanto riguarda la tradizione, non riuscirebbe a ritrovarla nemmeno Astolfo, che pure fu capace di recuperare perfino il senno di Orlando finito sulla luna tra le cose perdute sulla terra. Parlo, naturalmente, della tradizione vera, non di quella assunta sotto specie del proverbiale tappeto per nascondervi sotto la polvere di un presente vuoto, avvilente e sterile.
Ebbene, un barlume della napoletanità e della tradizione autentiche possiamo scorgerlo ne «I cavalli di Monsignor Perrelli», lo spettacolo di Lamberto Lambertini che ha per protagonista Peppe Barra e che di recente è stato proposto all’Augusteo. Giacché, per cominciare, si tratta di uno spettacolo che rende conto di una piccola ma preziosa storia e di un’altrettanto piccola ma impavida comunità di artisti, che lungo gli anni, pur a tratti perdendosi di vista, tuttavia immancabilmente son tornati ad incontrarsi.
Era il 1982 quando Peppe Barra e la madre Concetta – avendo alle spalle l’esperienza strepitosa della Nuova Compagnia di Canto Popolare – fondarono, insieme con Lambertini, una loro compagnia teatrale. E vennero dodici anni di spettacoli originali e assolutamente creativi, che furono dati un po’ in tutto il mondo: da «Peppe e Barra» a «Senza mani e senza piedi», da «Sempresì, ovvero il segreto per essere felici» a «La festa del principe», da «La cantata dei pastori» a, giusto, l’allestimento fondato sul personaggio di Monsignor Perrelli, che debuttò nel 1991 a Benevento, nell’ambito della rassegna «Città Spettacolo», col titolo «I fantasmi di Monsignor Perrelli».
Poi, dopo la morte prematura di Concetta, nel 1994 la compagnia venne sciolta. Ma adesso, come si vede, riparte, e non a caso con uno dei suoi più convincenti e accorsati cavalli di battaglia, che del resto era già stato ripreso nel 2004, con il titolo «Le follie del Monsignore», l’intervento come coautore accanto a Peppe Barra di Paolo Memoli e la regia di Filippo Crivelli.
S’intende, la figura qui evocata – lo strambo personaggio che visse al tempo di Ferdinando IV, il Re Nasone, ed è quindi passato addirittura in proverbio – costituisce appena un pretesto. Perché, al di là delle «scoperte» di Perrelli (una per tutte, la rivelazione che «il mare è salato perché ci sono le alici salate»), ben altri, e più alti e complessi, sono i veri – e tanto segreti quanto sostanziali – obiettivi dello spettacolo. Basta considerare, in proposito, il frequente e improvviso prolungarsi della narratività prosastica – tra l’una e l’altra delle scenette a due, protagonisti il Monsignore e la sua perpetua Meneca – in una «coda» ritmica che tende a farsi canto: e proprio non si potrebbe immaginare un modo più intelligente e felice di questo escogitato dalla regia di Lambertini per rendere il «nonsense» e persino il surreale delle affermazioni attribuite a Perrelli e che, quasi un barometro, influenzavano – si racconta – l’umore giornaliero dello stesso Re Nasone.

Peppe Barra in un altro momento dello spettacolo, firmato da Lamberto Lambertini

Peppe Barra in un altro momento dello spettacolo, firmato da Lamberto Lambertini

Non solo. Il tendere della prosa verso il canto significa anche agganciarsi alla dimensione di un puro gioco teatrale che, neutralizzando qualsiasi tentazione d’indagine storica, diventa memoria affettuosa – e percorsa da una lieve e talvolta malinconica poesia – di un’epoca, di una cultura e, per l’appunto, di una tradizione scomparse.
Vedi l’attacco dello spettacolo. Peppe Barra, seduto davanti al sipario ancora chiuso, avvolto in un’elegante veste da camerino e con un piccolo specchio tra le mani, canta sommesso, sul filo della musica sognante di Savio Riccardi, la poesia di Ferdinando Russo, «Core a core», che dice fra l’altro: «’Stu core se traveste ogne mumento / comme si stesse ‘ncopp’a ‘nu triato / addò, quanno l’attore s’è truccato, / pò fa’ qualunqua parte ‘e sentimento. / Mò sta facenno ‘o monaco ‘e cunvento, / zitto e cujeto, e s’è murtificato; / ma, si se secca ‘e ‘stu travestimento, / se ‘nfila ‘na sciammeria e pare n’ato. / Ha fatto ‘o guappo, ha fatto ‘o cammurristo, / ‘o cavalier servente, ‘o gran signore, / sempe recetajuolo e sempe ‘nzisto. / Ma che ne caccia? E che farrà dimane? / Si succedesse, arrassusia, ca more, / jesse certo a fernì ‘mmocc’a ‘nu cane!».
Appunto, è il segno dell’amarezza per l’astenia mentale, ideale e artistica (e in specie teatrale) che ci assedia. E a questo punto non mi resta, sul piano della cronaca, che annotare le novità che connotano questo terzo allestimento dedicato a Perrelli: l’introduzione dei personaggi della madre e del padre del Monsignore e, proprio in omaggio alla tradizione genuina di cui sopra, la riproposta fra una scenetta e l’altra di alcuni dei più rappresentativi classici della canzone napoletana («Il carrettiere del Vomero» di Federico Ricci, «Funtana a ll’ombra» di E.A. Mario, «Presentimento» di E.A. Mario, «’Mmiez’ ‘o grano» di Nicolardi e Nardella e «La luna nova» di Di Giacomo e Costa). E ad essi si aggiunge, in chiusura, la non meno emblematica «Tre cose» dello stesso Lambertini e di Patrizio Trampetti, che in tutta evidenza allude proprio a quanto della cultura napoletana più profonda abbiamo perduto: «Tre cose tengo scritte dint’ ‘o core: / spartenza, luntananza e gelusia. / A nisciuno purtaje tant’ammore / quanto ne purtaje a te, nennillo mio».
Adeguati risultano le musiche di Giorgio Mellone, le scene di Carlo De Marino, i costumi di Annalisa Giacci. E bravi, senz’alcun dubbio, sono Enrico Vicinanza e Luigi Bignone, nei ruoli, rispettivamente, della madre e del padre del Monsignore. E impeccabile come sempre appare lo stesso Patrizio Trampetti per lo stralunato ritratto che disegna di quest’ultimo. Mentre, a proposito di Peppe Barra, qui, ovviamente, nei panni di Meneca, non so fare altro che ripetere quanto di lui ho già scritto.
Meriterebbe una medaglia, Peppe. Perché, fra i teatranti napoletani, è rimasto l’unico che, con coraggio e costanza ammirevoli, incarni e riproponga, giusto, la nostra tradizione scenica più antica, genuina e culturalmente fondata. E non si tratta, nel suo caso, di nostalgia o del semplice portato di una fede. Né si tratta di riattintare demagogicamente i muri, senza scampo corrosi dal tempo, di rituali e kermesse destituiti, ormai, di qualsiasi significato. Si tratta, invece, di proporre occasioni pregnanti per riflettere sui capisaldi decisivi del teatro napoletano: per riflettere, voglio dire, allo scopo di trarre dalla riflessione la spinta a reinventare in forme nuove (ma sempre giustificate e garantite da un legame indissolubile con la tradizione di cui parlo) la preziosa eredità che da quei capisaldi discende.
In breve, ripeto anche questo, Peppe Barra è l’ultima incarnazione della sapienza scenica napoletana nel suo complesso di canto e recitazione. Dopo di lui, temo, rimarrà solo il deserto.

                                                                                                                                           Enrico Fiore

(«Corriere del Mezzogiorno», 20/11/2019)

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