Jennifer e Anna come la Solange e la Claire di Genet

Daniele Russo in un momento de «Le cinque rose di Jennifer», che ha aperto la stagione del Bellini (le foto che illustrano questo articolo sono di Mario Spada)

Daniele Russo in un momento de «Le cinque rose di Jennifer», che ha aperto la stagione del Bellini
(le foto che illustrano questo articolo sono di Mario Spada)

NAPOLI – «Dopo vari tentativi la porta si apre e irrompe in scena Jennifer, il travestito proprietario dell’appartamento. È vestito come una massaia che sia scesa a far compere e infatti è stracarico di pacchettini, scatole, buste, fra cui fanno capolino gli steli e i bocciuoli di cinque rose rosse».
È la didascalia con cui Annibale Ruccello presenta il personaggio protagonista del suo celebre «Le cinque rose di Jennifer». Ma nell’allestimento di quell’atto unico prodotto dal Bellini Jennifer compare in giubbotto, jeans e maglietta da uomo, e senza pacchettini, scatole, buste e rose rosse. Le cinque rose rosse sono in mano ad Anna, l’altro travestito previsto dal testo, che qui sta nel monocamera di Jennifer fin dal primo momento. E i due si guardano come se entrambi si vedessero riflessi in uno specchio.
Ancora una volta penso, in proposito, a Solange e a Claire, le protagoniste de «Le serve» di Genet, nell’interpretazione che ne diede Jean-Paul Sartre: «[…] ognuna delle due cameriere non ha altra funzione che di essere l’altra, di essere, per l’altra, se stessa come altra: invece che l’unità della coscienza sia perpetuamente ossessionata da una dualità fantasma, è al contrario la diade delle cameriere che è ossessionata da un fantasma di unità: ciascuna di esse non vede nell’altra che se stessa distante da sé».
Dunque, il tema centrale de «Le serve» è l’omosessualità, ma – come sempre in Genet – è un’omosessualità che nasce e si consuma all’interno di una solitudine ontologica e che, perciò, si traduce unicamente e perennemente in un desiderio di sé. E questo, appunto, è l’alto approdo dell’allestimento de «Le cinque rose di Jennifer» di cui parliamo.
Al riguardo aggiungo subito che le invenzioni della regia di Gabriele Russo discendono direttamente, e con un rispetto e una fedeltà che mi commuovono, dalle riflessioni sull’opera di Ruccello che sono andato sviluppando nel corso degli anni: in particolare nel saggio «Il rito, l’esilio e la peste» e nell’introduzione al «Teatro» dello stesso Annibale Ruccello, pubblicati, rispettivamente nel 2002 e nel 2005, dalla Ubulibri dell’indimenticabile Franco Quadri. Ma il rilievo non obbedisce, s’intende, alla voglia di compiacermi di me, troppa della proverbiale acqua essendo passata sotto i miei ponti perché io possa cedere a una qualsiasi vanagloria. È solo che sento il dovere di sottolineare l’ammirevole studio che presiede a questo spettacolo. In maniera schematica, allo scopo di essere il più preciso e chiaro possibile, elenco quindi nell’ordine le principali fra le mie riflessioni, accoppiandole con le invenzioni che da esse ha tratto Gabriele Russo.

Da sinistra, Sergio Del Prete e Daniele Russo in un altro momento dello spettacolo, diretto da Gabriele Russo

Da sinistra, Sergio Del Prete e Daniele Russo in un altro momento dello spettacolo, diretto da Gabriele Russo

1) Il testo risulta nient’altro che un oggetto fra i tanti del ciarpame, insieme patetico e pretenzioso, accumulato nella stanza-prigione di Jennifer: costruito sulla base dei più logori e prevedibili stereotipi verbali, giunge a diventare significante per sottrazione di senso invece che per adozione di significati o, peggio, di messaggi. Ed ecco che, a tratti, Gabriele Russo lo riduce al semplice muovere le labbra da parte dell’interprete, senza che si senta alcun suono.
2) Di conseguenza, la dimensione che si accampa ne «Le cinque rose di Jennifer» è una dimensione mentale: in cui rientrano tutti i particolari della «trama», non solo Franco, il presunto amore del quale Jennifer attende il ritorno, ma anche Radio Cuore Libero con le sue dediche, anche il maniaco che va uccidendo i travestiti, anche i telefoni che non riescono a comunicare fra loro e anche, per l’appunto, Anna, che si rivela come una pura visione di Jennifer. Ed ecco che Gabriele Russo ci mostra, per esempio, telefonate che Jennifer fa senza alzare la cornetta, attribuisce ad Anna gli stessi gesti che compie Jennifer e ci fa udire il colpo di pistola che alla fine Jennifer si sparerà in bocca, l’unica cosa vera, solo dopo che il sipario si è chiuso, proprio per sottrarre quel suicidio al carattere d’irrealtà di tutto quanto avevamo visto e sentito prima nell’ambito della rappresentazione.
3) L’accumulo di varianti del testo (è del 1980, ma Ruccello ne scrisse una seconda versione nel 1986, dopo il terremoto) porta al tema di Napoli in quanto città travestita per eccellenza. Jennifer, in breve, si fa simbolo di una pratica di scrittura drammaturgica che non parla di Napoli, ma è Napoli: una scrittura che assume Napoli in quanto corpo storico, visto e sentito (anche nel senso di patito) lungo il suo divenire e trasformarsi. Ed ecco che Gabriele Russo fa incombere sul monocamera di Jennifer il coacervo delle strade e delle case di Napoli dipinto sulle pareti del palcoscenico, ecco che riduce quel monocamera a una discarica sperduta nel nero della lava rappresa del Vesuvio, ecco che ci indica il «diventare donna» di Jennifer col suo truccarsi davanti allo specchio ed ecco, soprattutto, che – quando si riapre il sipario dopo il colpo di pistola – ci mette di fronte a una scena in cui resta solo il ciarpame di quella discarica, senza più nemmeno i cadaveri di Jennifer e del suo «doppio» Anna.
Infine, per quanto riguarda Daniele Russo, non so fargli elogio migliore del constatare che invera – nel solco di una prova che fonde kitsch e disperazione – quanto a proposito di Jennifer osservò lo stesso Ruccello: tende «a rappresentare l’impossibilità, per la solitudine, di rappresentarsi oggi come evento eroico». E non meno bravo risulta Sergio Del Prete nel ruolo di Anna.
Basta, adesso. Quest’allestimento de «Le cinque rose di Jennifer» mi porta l’eco dei discorsi che in certe sere feci con Ruccello a Castellammare, dove entrambi vivevamo. In quelle sere fui testimone e in qualche modo complice della genesi dei suoi testi. E mi ridesta, questo spettacolo, l’emozione che sempre si desta quando gira il disco con le canzoni di Mina che Annibale mi regalò. È l’unica cosa che mi resta di lui. Sulla copertina, a mo’ di dedica, c’è scritto solo: «Ad Enrico, con sentimento». E la parola «sentimento» è sottolineata due volte.

                                                                                                                                           Enrico Fiore

Questa voce è stata pubblicata in Recensioni. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *