Napoletanità come valore

Titina e Eduardo De Filippo in un momento di «Filumena Marturano»

Titina e Eduardo De Filippo in un momento di «Filumena Marturano»

NAPOLI – Riporto il commento, pubblicato ieri dal «Corriere del Mezzogiorno», al saggio di Marco Demarco «Naploitation».

Lo spunto per entrare nel profondo di «Naploitation» (sottotitolo: «Napoli, la tradizione e l’innovazione»), il denso saggio (ma è anche un romanzo d’avventure, anche una ribellione, anche un «divertissement» amabile e acuto e risentito insieme) di Marco Demarco appena uscito per i tipi di Guida, me lo dà il racconto di Friedrich Hebbel citato nelle primissime righe e in cui compare uno scippato presunto che, però, è lo scippatore vero.
Non so se Demarco lo sospetti (in effetti credo d’essere il solo che l’abbia rilevato), ma si dà il caso che Hebbel chiami in causa, e più che direttamente, uno dei simboli principali, se non il principale in assoluto, di quella dimensione, la napoletanità, che costituisce l’argomento del suo saggio, ovvero Eduardo De Filippo. E mi spiego.

Marco Demarco

Marco Demarco

Friedrich Hebbel, oggi quasi completamente dimenticato, fu, alla metà dell’Ottocento, tra i più importanti e accorsati poeti e drammaturghi che vantasse la Germania. Scrisse tragedie come «Judith», «Maria Magdalene» e «Gyges und sein Ring», che trasmettevano una sfiduciata visione del mondo e della storia per riassumere la quale venne coniato il termine «pantragismo». Ma se non ottenne giudizi lusinghieri tanto nichilismo, in compenso ne toccò di addirittura entusiastici ai «Diari» che Hebbel stese fra il 1845 e il 1854.
Kafka, per esempio, dichiarò di averli letti «tutti d’un fiato» e di considerarli fra i «libri che mordono e pungono». E gli aforismi che in essi vengono dispensati a piene mani – insieme con le confessioni autobiografiche, le meditazioni filosofiche e le spietate riflessioni sull’opinabilità della giustizia – collocano Hebbel accanto ai vari Lichtenberg, Kraus e Canetti.
Ebbene, nell’edizione dei «Diari» («Tagebücher Bd. 3, 1845-1854») di Hebbel pubblicata a Berna nel 1970 compare un frammento (è il numero 4149) che suona: «Ein Weib zu ihrem Mann: ja, es ist wahr, nur eins dieser drei Kinder ist von Dir, aber ich sage Dir nicht, welches, damit Du die andern nicht schlecht behandelst». In italiano suona: «Una donna a suo marito: sì, è vero, solo uno di questi tre bambini è figlio tuo, ma non ti dico quale perché non voglio che tratti male gli altri».
Ora, è assai improbabile, se non impossibile, che Eduardo abbia conosciuto Hebbel e, nella fattispecie, i «Diari» in questione. E allora possiamo spiegarci la strabiliante identità fra la sua «Filumena Marturano» e l’appunto dell’autore tedesco, precedente di quasi un secolo, soltanto sulla base della persistenza nel teatro universale, attraverso le epoche e al di là di esse, di un rapporto unico e straordinariamente forte e totalizzante come quello che esiste fra la madre e i figli, anche contro il maschio.
Non è proprio a tale persistenza di argomenti capitali attraverso le epoche e al di là di esse che si richiama Demarco quando, nel suo saggio, scrive: «Il tema è esattamente questo: ritrovare nella napoletanità un patrimonio simbolico condiviso»? E penso, in proposito, anche all’accenno al «presepe come metafora».

Friedrich Hebbel (ritratto di Carl Rahl)

Friedrich Hebbel
(ritratto di Carl Rahl)

Io non ho mai smesso di ritenere che «Natale in casa Cupiello» sia una sorta di equivalente napoletano dell’«Enrico IV» di Pirandello. Pensate un po’ ai personaggi protagonisti delle due opere: entrambi sono impegnati nel disperato tentativo d’imprigionare la vita – ch’è un susseguirsi di momenti di disgregazione, per giunta slegati l’uno dall’altro – in una forma unica, per sempre data e per sempre riconoscibile. Per l’Enrico IV di Pirandello quella forma è il ruolo dell’imperatore medievale, per il Luca Cupiello di Eduardo è il presepe.
Eduardo, insomma, non smise mai, come il suo maestro Pirandello, di oscillare fra il realismo e la mistificazione attribuiti da Roberto Alonge al Girgentino. E non faccio fatica, in breve, a collegare una simile considerazione a un altro dei passi decisivi del saggio di Demarco: «La dimensione ambigua ma inclusiva e coagulante della napoletanità è la stessa del populismo di oggi. È trasversale. Ed è funzionale a tenere insieme gli opposti: ieri la plebe aggressiva e la borghesia intimidita, oggi le pulsioni una volta gestite separatamente e in modo gerarchicamente diseguale dalla destra e dalla sinistra politica. Dopo averla anticipata, Napoli si specchia così nell’Italia populista».
Attenzione, però. Marco Demarco dichiara – e non a caso colloca quella dichiarazione in posizione fortemente icastica, alla fine del primo capitolo – che considera «la napoletanità un valore. Non per altro: perché può essere utile a creare quel comune sentire che altre città hanno e Napoli, proprio Napoli, paradossalmente ancora non ha».
La conclusione – al termine di una cavalcata che da Hebbel conduce a Ghirelli e La Capria, tanto per citare i due scrittori che il saggio considera ineludibili in merito allo svolgimento del tema proposto – è la seguente: «A me pare importante che oggi Napoli si ritrovi, che le maglie della napoletanità si allarghino, che dentro non restino solo i racconti di Basile, “Tale of tales” di Garrone, i concerti di Muti e la raffinata sperimentazione della nuova drammaturgia (Manlio Santanelli, Annibale Ruccello, Enzo Moscato)».
Appunto. Si tratta di una necessità sottolineata proprio dal fatto che l’argomento centrale di «Filumena Marturano» era stato pensato un secolo prima da Hebbel. E tutto si tiene. Mediante le ultime parole di «Naploitation», inzuppate nella concretezza e, insieme, spruzzate di una salutare e demitizzante ironia: «Oggi la napoletanità non è più una trappola. Ma non può esserci napoletanità se il bus non passa».

                                                                                                                                          Enrico Fiore

(«Corriere del Mezzogiorno», 17/10/2019)

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