Dalla mente di Prospero escono Freud, Dalì… e Marilyn Monroe

Eros Pagni in un momento de «La tempesta», che ha aperto la rassegna «Pompeii Theatrum Mundi» (le foto che illustrano questo articolo sono di Fabio Donato)

Eros Pagni in un momento de «La tempesta», che ha aperto la rassegna «Pompeii Theatrum Mundi»
(le foto che illustrano questo articolo sono di Fabio Donato)

POMPEI – Lo ripeto ancora una volta. M’è sempre parso che la chiave (o, almeno, una delle chiavi) per afferrare il senso profondo de «La tempesta» di Shakespeare possa trovarsi nei seguenti due passi di «Andrea o I ricongiunti», il grande romanzo incompiuto di Hofmannsthal.
Questo il primo: «In quel che c’è di più singolo, particolare, si compie il destino, in quel che c’è di più particolare risiede la forza». E questo il secondo: «La vera poesia è l’arcanum che ci congiunge alla vita, che dalla vita ci separa. Il separare – soltanto se separiamo noi viviamo veramente – se noi separiamo anche la morte è sopportabile, solo quello che è mischiato è orribile».
Infatti, Prospero aveva voluto unire il Tutto: il cielo e la terra, l’anima e il corpo, l’arcano e il quotidiano. Ma riesce a ritrovare la propria dimensione umana, e quindi a vivere davvero, solo quando spezza la sua bacchetta magica e dà l’addio agli spiriti e ai folletti: solo quando, cioè, tocca l’estrema saggezza, ch’è quella, giusto, di separare l’umano dal divino.
Dunque, quest’opera ultima del Bardo – connotata dall’allegoria e dalla fuga in un mondo superumano, e in cui la poesia, come acutamente osservò Gabriele Baldini, nasce unicamente dalla «condizione di disperato aggrappamento a una facoltà sul punto di spegnersi» – è proprio un rito sapienziale. E il suo sacerdote, Prospero, raggiunge la verità solo quando si vede costretto, per l’appunto, a separare la magia (ovvero l’illusione) dalla vita (ovvero la realtà). Si tratta dell’unica «separazione» che possa trasformare l’inevitabile momento del distacco dall’esistenza fisica e dall’arte in una nuova e più perfetta simbiosi fra il pensiero e la sua «estensione» nel tempo.
Ma Luca De Fusco – regista dell’allestimento de «La tempesta» che, nell’ambito del Napoli Teatro Festival Italia, ha aperto nel Teatro Grande la rassegna «Pompeii Theatrum Mundi» – dichiara che quel testo «è un addio, l’addio di Shakespeare al teatro, l’addio ad un tipo di teatro che spezza la bacchetta magica e rinuncia alle sue magie, ormai superate dal tempo». E aggiunge: «Noi ne faremo un atto di addio al Novecento che deve subire l’arrivo del nuovo millennio».
De Fusco, insomma, scopre che due più due fa quattro: siccome «La tempesta» è l’ultimo testo del Bardo, significa che è l’addio di Shakespeare al teatro e alle sue datate magie; e siccome è arrivato il Duemila, si deve dare l’addio al Novecento. In altri termini, per De Fusco l’interpretazione de «La tempesta» resta tutta interna al teatro e al suo determinarsi sul piano storico, sul piano della dialettica fra vecchie e nuove forme. Mentre ben altra, come ho accennato, è la separazione a cui quel testo si riferisce: è la separazione fra la vita e la morte, o meglio fra una certa vita e un’altra a venire, forse fondata sulla morale, forse sulla religione. E il teatro, vecchio o nuovo che sia, c’entra con quella separazione solo nel senso indicato dalla decisiva analisi di Jan Kott: «L’estremo fallimento di Prospero è l’impotenza del teatro. La conclusione della “Tempesta” è anche la fine della tragedia elisabettiana. Il teatro non può cambiare il mondo».
Per questo, ad esempio, Strehler fondò il suo allestimento de «La tempesta» per l’appunto sulla confessione dell’inesorabile e insormontabile debolezza del teatro nei confronti, giusto, della forza e dell’imprevedibilità della vita; e per questo nell’allestimento de «La tempesta» firmato nell’86 da Leo de Berardinis la «trama» di quella commedia appariva riferita a qualcosa di già avvenuto: tanto che nella sequenza iniziale, tagliato via il celeberrimo prologo in mare, l’equipaggio della nave naufragata sugli scogli dell’isola di Prospero avanzava dal fondo del palcoscenico verso la ribalta come se si trattasse di un drappello di «zombies», per giunta con la testa e le mani infagottate in bende da lebbrosi.

Eros Pagni e e Gaia Aprea in un altro momento dello spettacolo, diretto da Luca De Fusco

Eros Pagni e e Gaia Aprea in un altro momento dello spettacolo, diretto da Luca De Fusco

Al contrario, De Fusco, citando ancora una volta il René Girard che già s’era appropriato in occasione dell’allestimento della «Salomé» di Wilde, preferisce ridursi unicamente all’ipotesi che la «tempesta» si scateni solo nella mente di Prospero. E così conclude le sue considerazioni: «Dopo aver pensato questo personaggio di grande cultura, di grande capacità immaginativa e che mi figuro da sempre immerso nei suoi libri, mi sono reso conto che il mio Prospero altri non era che mio padre, Renato De Fusco, emerito storico dell’architettura che, dal chiuso della sua biblioteca, ha raccontato, in decine di opere, edifici in gran parte dei quali non è mai stato, ma che ha avuto la capacità visionaria d’immaginare. È per questo che gli dedico questa mia regia in occasione dei suoi novant’anni».
Ora – tralasciando la mozione degli affetti privati messa sul tappeto da De Fusco, affetti che naturalmente rispettiamo ma che altrettanto naturalmente non possiamo in alcun modo prendere in considerazione riguardo alla regia dello spettacolo in questione – c’è da osservare che il tradurre in scena l’ipotesi che la «tempesta» si scateni solo nella mente di Prospero non è una gran novità: per fare ancora un esempio, esattamente su quell’ipotesi si basava l’allestimento de «La tempesta» firmato da Declan Donnellan e che vedemmo al Mercadante nel 2011, manco a dirlo sempre nell’ambito del Napoli Teatro Festival Italia e, per giunta, del Napoli Teatro Festival Italia diretto dallo stesso De Fusco. Infatti, nell’attacco di quello spettacolo la tempesta che affonda la nave di Antonio e Alonso era il manifestarsi dei lampi, degli scrosci di pioggia e dell’annaspare dei naufraghi nel vano delle porte della stanza in cui stava seduto Prospero, lo sguardo fisso e un lieve tremito nelle mani.
L’unica differenza è che, nello spettacolo di De Fusco, quei lampi, quegli scrosci di pioggia e quell’annaspare dei naufraghi si manifestano nella biblioteca di Prospero. E, si capisce, non costituiscono delle novità nemmeno i particolari concreti della messinscena: abbiamo i soliti costumi che svariano fra epoche diverse, il solito tapis roulant che porta e porta via personaggi e arredi, le solite musiche sognanti e iterative e, naturalmente, le solite proiezioni, a cui De Fusco s’è ormai consegnato come a una pratica devozionale. Sarebbero una novità il re di Napoli, il consigliere, i cortigiani e Giunone visti da Prospero, rispettivamente, come il re Sole, Freud, Dalì, Magritte e addirittura Marilyn Monroe, che compie il tragitto dalle gradinate allo spazio scenico nello stesso modo in cui De Fusco lo fece compiere l’anno scorso a Salomé. Ma non a caso ho adoperato il condizionale. L’ho fatto perché queste invenzioni discendono direttamente dall’ipotesi che tutto avvenga nella mente di Prospero: un’ipotesi che, ripeto, non è di De Fusco e che già altri hanno messo in scena prima di lui.
Infine, anche la recitazione è senza sorprese: nel senso che s’adagia nella semplice routine professionale, sia pure d’alto rango per quanto concerne Eros Pagni, qui, ovviamente, nel ruolo di Prospero. E degli altri mi sembra che si possano citare appena Gaia Aprea (Ariel e Calibano) e Alfonso Postiglione (Trinculo).
Al termine della «prima» gli applausi di un pubblico in cui foltissima era la componente dei soliti noti, i cosiddetti «vip», degli invitati di ogni estrazione, degli addetti ai lavori e, specialmente, di quanti (autori, registi, attori) sono stati impiegati negli spettacoli prodotti dallo Stabile di Napoli diretto da Luca De Fusco. Tutti insieme appassionatamente. O, per essere esatti, disciplinatamente.

                                                                                                                                           Enrico Fiore

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6 risposte a Dalla mente di Prospero escono Freud, Dalì… e Marilyn Monroe

  1. Fulvio Pastore scrive:

    Sei un grande! Come sempre!
    Fulvio Pastore

  2. Enrico Fiore scrive:

    Grazie, caro Fulvio. Ma non sono un grande. Mi accontento di essere un professionista che cerca di fare il suo lavoro con impegno e onestà. Di questi tempi, sarai d’accordo, è un risultato questo sì grande.
    Ti abbraccio.
    Enrico Fiore

  3. Patrizio Rispo scrive:

    Ci ho messo un po’ prima di capire a cosa ti riferivi l’altra sera…
    Buon week-end.
    Patrizio Rispo

  4. Enrico Fiore scrive:

    Nello scambio di battute con Patrizio Rispo, mi riferivo, sia detto a beneficio di quanti frequentano questo sito, alla voce secondo cui sarebbe candidato alla direzione dello Stabile di Napoli il regista Ferzan Ozpetek. Ovviamente, ho detto a Patrizio: mamma, li turchi!
    Speriamo bene, caro Patrizio. E buon week-end anche a te.
    Enrico Fiore

  5. Raffaele Mastroianni scrive:

    Sottovalutano la tua memoria storica.
    Che tristezza.
    Grazie.
    Raffaele Mastroianni

  6. Enrico Fiore scrive:

    Grazie a te, caro Raffaele, per l’attenzione che continui a riservarmi.
    Cordiali saluti.
    Enrico Fiore

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