Le stanze dei giochi di Tato

Tato Russo all'interno della ricostruzione del suo camerino

Tato Russo all’interno della ricostruzione del suo camerino

NAPOLI – Riporto il commento, pubblicato ieri dal «Corriere del Mezzogiorno», circa la mostra «Le stanze di Tato Russo. Gli anni del coraggio» in corso nel Castel dell’Ovo.

«La verità è che questo è stato un grande gioco: il Bellini era l’indomabile voglia del bambino che mi porto dentro».
Così disse Tato Russo alla vigilia della riapertura del teatro di via Conte di Ruvo, avvenuta il 19 novembre del 1988. E subito mi son tornate in mente, quelle parole, mentre nel Castel dell’Ovo visitavo la mostra «Le stanze di Tato Russo. Gli anni del coraggio». Perché io ho sempre considerato Tato Russo per l’appunto come un bambino. È stato l’ossimoro che ogni bambino è: da un lato l’egocentrismo, il narcisismo e le impuntature, dall’altro la fantasia anarchica che spesso gli ha consentito di andare fuori e al di là di sé.
Il nostro rapporto è stato difficile, perché difficile è il carattere che entrambi ci ritroviamo. Ma proprio per questo posso considerarlo un rapporto vero. Tato Russo è stato quel che ha voluto essere, nel bene e nel male. Non sono molti, massimamente fra i teatranti, quelli che hanno fatto altrettanto. E io, comunque, gli devo alcune delle poche avventure intriganti che mi siano capitate negli ormai cinquantatré anni di attività professionale.
Eccomi, per esempio, davanti al plastico della scenografia dell’«Amleto» realizzato per la mostra dagli allievi dell’Accademia di Belle Arti. Il suo allestimento dell’«Amleto» Tato Russo lo presentò nel luglio del 1998 al Teatro Romano di Verona, nell’ambito del cinquantesimo Festival Shakespeariano. Il giorno della «prima» faceva un caldo atroce, saliva dall’Adige un’umidità che ti si appiccicava addosso come colla. Il condizionatore d’aria nella mia stanza d’albergo era fuori uso. E a tutto questo s’aggiungeva il tormento per lo spettacolo che mi attendeva. Un altro allestimento di «Amleto»? Quanti ne avevo già visti? E che delitto avevo commesso per essere condannato a vederne ancora uno?
Poi mi sedetti sulle gradinate del Teatro Romano e appena cominciò lo spettacolo non sentii più il caldo. Mi trovai di fronte – seduto dietro una monumentale scrivania piazzata al centro dello spazio scenico e sovraccarica di fregi polverosi – non l’Amleto scritto da Shakespeare, ma un Amleto che scriveva la propria storia come se fosse lui Shakespeare. E l’azione della celeberrima tragedia letteralmente si frantumava, episodio dopo episodio, all’interno di un’autentica folla di teatrini all’italiana: tutti debitamente forniti di decoratissimi boccascena e del canonico sipario di velluto cremisi con frange d’oro; e tutti affondati nella sabbia, come in un deserto o, comunque, in un terreno sterile.

Il plastico della scenografia dell'«Amleto» presentato da Tato Russo nel Teatro Romano di Verona

Il plastico della scenografia dell’«Amleto» presentato da Tato Russo nel Teatro Romano di Verona

L’Amleto di Tato Russo era uno smarrito intellettuale d’oggi, che la propria tragedia, quando non la scriveva, la sognava, travolto dagl’incubi sul monticello di sabbia su cui sovente giaceva riverso. E il finale andava a vederselo al cinema, facendosi proiettare su un solo schermo gli epiloghi sovrapposti dei film su Amleto di Olivier, Zeffirelli e Branagh. Senza contare che coltivava una malcelata tensione edipica verso la madre, come stava ad indicare, fra l’altro, la reiterata apparizione di un Amleto bambino.
Appunto, il bambino. E del resto, due anni prima, sempre nel Teatro Romano di Verona, Tato Russo aveva presentato una sua versione de «La commedia degli equivoci» in cui, alla fine, il secondo dei due Antifoli, chiamato dal primo, compariva proprio nelle vesti di un bambino, lo stesso che avevamo visto all’inizio dello spettacolo mentre la madre lo sottoponeva a un lavacro purificatore. Tato Russo ci diceva, insomma, che il nostro «gemello» vero (o, se più vi piace, il nostro vero «doppio») è l’innocenza perduta, che interminabilmente cerchiamo annegando, giorno dopo giorno, nell’oceano dell’esistenza.
Sì, Tato Russo è stato un bambino. Ha maneggiato il teatro come se fosse un giocattolo. E come tutti i bambini fanno con i propri giocattoli, lo ha smontato e rimontato in continuazione. Ricordo che una volta invitò me e Vittorio Lucariello ad assistere a un provino per l’ammissione all’Accademia d’Arte Drammatica del Bellini. Lui stava praticamente sdraiato su una sedia dietro un tavolo, un misto del «flâneur», dell’Aristide Bruant di Toulouse-Lautrec e del Dorian Gray di Wilde. E improvvisamente cominciò ad apostrofare i candidati in maniera del tutto imprevedibile: «Ma tu perché vuoi fare teatro? Chi te lo fa fare? Senti a me, lascia perdere». Sicché altrettanto improvvisamente capimmo il motivo per cui, insieme con me, aveva invitato ad assistere a quel provino anche Lucariello, il padre putativo della più avanzata sperimentazione. Il bambino Tato Russo stava smontando per l’ennesima volta il proprio giocattolo e, nello stesso tempo, lo stava rimontando nella forma di un’esibizione da teatro situazionista intinta nell’assurdo.
Direi, d’altronde, che il Bellini, che Tato Russo volle a tutti i costi restaurare e riaprire, gli era naturalmente destinato. Nato in alternativa all’«ufficialità» del San Carlo, venne inaugurato la sera del 19 novembre 1864 da quella compagnia equestre Guillaume il cui fondatore Francesco Luigi, barone di Lione con avi impegnati nelle Crociate, aveva preferito la vita libera dei saltimbanchi. Anche lui un bambino. E non a caso, per capirci, proprio il Bellini fu il primo teatro italiano ad ospitare (ciò che non avevano osato fare né la Scala né tampoco il San Carlo) la scomoda e incompresa «Carmen» di Bizet.
Avvenne il 15 novembre 1879. E per giunta, non meno significativo è il fatto che all’origine il Bellini – costruito dal barone La Capria su progetto dell’architetto Carlo Sorgente e ispirato alla parigina Opéra-Comique – sorgesse al margine di piazza Dante, accanto al palazzo Tommasi e dirimpetto alla chiesa di Santa Maria di Caravaggio. Quella piazza, che allora si chiamava Largo del Mercatello, era già da tempo zona di teatri: addirittura nel 1712 una compagnia di comici lombardi vi aveva eretto un suo casotto di legno e, al momento della costruzione del Bellini, nello spazio dei giardinetti davanti al palazzo Tommasi sorgeva pure un baraccone denominato Teatro delle Fosse del Grano e gestito dalla compagnia francese Gregoire.
Dunque, fin dall’inizio, e in maniera sinanche ovvia, si precisò la vocazione del Bellini: quella di un teatro destinato a un pubblico «popolare» nel senso più vasto e nobile dell’aggettivo, vale a dire al pubblico che rappresenta, in ogni epoca, l’imprescindibile punto di riferimento per le forme di spettacolo aperte al nuovo.
La mostra di Castel dell’Ovo doveva intitolarsi «Le stanze dei giochi del bambino Tato Russo». O, meglio ancora, «Le stanze dei giochi di Tato». E il cerchio si chiude perfettamente. La vicenda artistica di Tato Russo risulta indissolubilmente legata alla sua vita. Nel 1988, alla vigilia della riapertura del Bellini, così riassunse il programma di quel teatro: «Noi fonderemo il rigore della ricerca con le ragioni dello spettacolo». E non è proprio questo che stanno facendo Roberta, Daniele e Gabriele, i tre figli di Tato che ormai da qualche anno costruiscono per il Bellini il miglior cartellone fra quelli di tutti i teatri napoletani?

                                                                                                                                         Enrico Fiore

(«Corriere del Mezzogiorno», 19/6/2019)

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