Fantasmi d’arte e di vita nello specchio della follia

Danio Manfredini in un momento di «Luciano», presentato al Politeama dal Teatro Area Nord (le foto che illustrano questo articolo sono di Manuela Pellegrini)

Danio Manfredini in un momento di «Luciano», presentato al Politeama dal Teatro Area Nord
(le foto che illustrano questo articolo sono di Manuela Pellegrini)

NAPOLI – «Il ritratto di un paziente psichiatrico». Così Danio Manfredini definisce il suo spettacolo, «Luciano», che La Corte Ospitale ha presentato al Politeama (purtroppo per un solo giorno) nell’ambito della stagione del Teatro Area Nord. Ma è molto di più: è la verifica di sé attraverso l’incontro che il paziente psichiatrico qui ritratto, appunto Luciano, ha con altri disadattati sociali come lui, primi fra tutti tossicodipendenti e omosessuali. E non a caso quest’incontro avviene nel ricordo, in un ricordo che, spesso, il delirio trasforma in pura immaginazione.
In breve, è come se Luciano si approntasse uno specchio in cui osservare se stesso lontano da sé, e quindi con obiettività assoluta. E scrivo la parola «obiettività» in corsivo per sottolineare il fatto che l’adopero non solo nel senso comune del termine, ma anche e soprattutto in riferimento agli «objets trouvés» dei dadaisti e, con essi, ai «ready-made» di Duchamp, gli oggetti d’uso comune che si caricavano di valenze simboliche per il solo fatto d’essere esposti e, dunque, trasferiti su un piano «illogico».
Ancora non a caso, infatti, Luciano dice al poliziotto di Monaco che l’ha fermato in un bar: «Signor poliziotto, adesso ti spiego… nel senso della logica… Ho sentito che in Comune con una carta bollata cambi nome e cognome. Ho pensato di farlo ma poi non so che nome mettermi, allora mi tengo il mio: Luciano. È così, non può essere neanche diverso… è chiaro, il senso della logica non sbaglia mai».
Si tratta di un’evidentissima sottolineatura per contrasto. Perché Luciano preferisce proprio l’illogicità: preferisce, ripeto, osservarsi nello specchio dei disadattati sociali come lui, e così ridursi, per l’appunto, a un «objet trouvé» o a un «ready-made». E dico, con ciò, della perfetta identificazione che di conseguenza Manfredini stabilisce tra la follia e l’arte. Rivolto all’operatore con la chitarra che a un certo punto compare fra i pazienti psichiatrici, Luciano commenta: «Te fai l’operatore, suoni, canti, reciti, dipingi. Sei un artistone. Te ci capisci. Te ci accudisci».
Ma, lo si sarà intuito, straordinaria risulta in questo spettacolo – crudele e pure fraterno, ostico e pure lieve, melmoso e pure cristallino, beffardo e pure tenero, osceno e pure casto – la stratificazione dei rimandi, sia sul versante dei contenuti che su quello delle forme. Tanto per fare un esempio, il Luciano che osserva se stesso lontano da sé rimanda all’acuta analisi che, in «Santo Genet, commediante e martire», Sartre sviluppa a proposito de «Le serve»: «[…] ognuna delle due cameriere non ha altra funzione che di essere l’altra, di essere, per l’altra, se stessa come altra: invece che l’unità della coscienza sia perpetuamente ossessionata da una dualità fantasma, è al contrario la diade delle cameriere che è ossessionata da un fantasma di unità: ciascuna di esse non vede nell’altra che se stessa distante da sé». Di modo che, proprio come in Genet, l’omosessualità che straripa in «Luciano» si consuma all’interno di una solitudine ontologica e, perciò, si traduce – unicamente e perennemente – giusto in un desiderio di sé.
Del resto, appare oltremodo evidente anche l’identificazione fra Luciano e lo stesso Manfredini. Che viene dichiarata alla fine, e dunque collocata in posizione fortemente icastica, allorché Luciano racconta: «Poi un giorno con Danio sono al fiume. Quando siamo tornati il direttore fa: lei è un pazzo, ha portato fuori Luciano senza avvisare, senza firmare. È mezz’ora che lo stiamo cercando. Siamo tutti in ansia. Abbiamo avvisato gli assistenti sociali, anche sua sorella. Lei è un maleducato».

Da sinistra, Danio Manfredini, Cristian Conti, Giuseppe Semeraro, Darioush Forooghi e Vincenzo Del Prete in un altro momento dello spettacolo, prodotto da La Corte Ospitale

Da sinistra, Danio Manfredini, Cristian Conti, Giuseppe Semeraro, Darioush Forooghi e Vincenzo Del Prete
in un altro momento dello spettacolo, prodotto da La Corte Ospitale

Ovviamente, un quadro del genere aveva bisogno di uno straniamento adeguato. E lo trova in maniera efficace nel continuo slittare del crudo dato reale in una dimensione onirica (nei cessi della stazione, poniamo, Luciano dice a un femminiello: «[…] il tuo corpo è ancora qua / in quest’oasi di città / ma in quale sogno sei?») e, quindi, nel fatto che – come dimostra la citazione che ho appena fatto – il testo è spesso scritto in versi, talvolta addirittura a rima baciata, e per giunta accoglie prelievi alti che vanno, nientemeno, da Dante («[…] Nessun maggior dolore / che ricordarsi del tempo felice / ne la miseria», Inferno, V, 121-123) a Leopardi («Tu solitario uccellino, / venuta la sera del vivere tuo…», «Il passero solitario», 45-46).
Peraltro, anche su questo versante torna la sottolineatura per contrasto. Giacché le citazioni o le parafrasi di versi celebri vengono sistematicamente riferite a una situazione di segno opposto. Come quando piombano nel parco ch’è luogo di ritrovo abituale di checche, travestiti e marchettari «Davanti San Guido» di Carducci («Oh cipressetti miei / adesso che ho i capelli bianchi / le sassate alle piante non le tiro più») e «La pioggia nel pineto» di D’Annunzio («Il sole calando cancella / quella favola bella / che ieri mi illuse / e oggi mi illude. Oh Ermione»). Ed è superfluo, infine, rilevare quanto di autobiografico (parlo di autobiografia personale e artistica insieme) trasmetta lo spettacolo in parola.
Il cinema a luci rosse in cui va a sedersi Luciano costituisce, oltre ogni dubbio, un ricalco eclatante del «Cinema Cielo» che compariva nell’omonimo spettacolo di Manfredini che vedemmo al Mercadante nel febbraio del 2006. E l’autocitazione si giustifica perché in «Cinema Cielo» spasimava lo stesso rapporto, per l’appunto onirico, che spasima adesso in «Luciano»: quello tra i fantasmi dei corpi e l’inanità del desiderio che li evoca. Con in più – ed è l’ennesimo straniamento, stavolta in chiave polemica – la battuta al cellulare: «Pronto, sono Luciano… sono a teatro a vedere “Qui comincia la sventura del signor Bonaventura”… c’è il Teatro di Roma al Piccolo Teatro di Milano».
Il momento in cui si riassume e si esalta tutto quanto ho esposto finora è la sequenza che vede l’andirivieni disperato di quelle checche, di quei travestiti e di quei marchettari trasformarsi, agli occhi di Luciano/Manfredini, in una sarabanda insieme corrusca e oscura che mescola figure da circo o da libro quali un trampoliere, un minotauro e la morte su un monociclo (l’esteriorità cultural/spettacolare del teatro in sé) mentre in sottofondo si sente, smarrita, la «Bang bang» cantata da Nancy Sinatra (il rimpianto dell’innocenza dei sentimenti).
Il Danio Manfredini attore, infine. Il suo muoversi a passi lenti, strascicati e talvolta incespicanti – nello stesso tempo presente fra i suoi compagni (Ivano Bruner, Cristian Conti, Vincenzo Del Prete, Darioush Forooghi e Giuseppe Semeraro, che hanno il volto coperto da maschere a ribadire la natura fantasmatica dei propri personaggi) e da loro lontanissimo – mi fa tornare in mente ciò che, ne «Il libro dell’inquietudine», il Bernardo Soares di Pessoa osserva dopo aver constatato d’essersi trasformato lui stesso in un’ombra a forza di occuparsi di ombre: «Siamo qualcosa che accade nell’intervallo di uno spettacolo; a volte, attraverso determinate porte, intravvediamo quello che forse è soltanto lo scenario. Tutto il mondo è confuso come voci nella notte».
Chiudo con un’osservazione semplicissima. Questo «Luciano», presentato per una sola sera al Politeama, ha unito due eccentricità, quella del Teatro Area Nord e quella di Danio Manfredini. E naturalmente parlo di «eccentricità» nel senso etimologico (ed alto e nobile) del termine: nel senso di lontananza dal centro. Il Teatro Area Nord va svolgendo un lavoro prezioso nel suo isolato avamposto di Piscinola, Danio Manfredini va portando avanti un teatro ferocemente opposto all’ufficialità della rappresentazione di consumo. Ma è proprio tale lontananza del centro che, poi, consente – per l’appunto – di uscire da sé, per trovare una giustificazione di sé attraverso il confronto con l’altro da sé. È quel ch’è stato fatto portando «Luciano» al Politeama, nel teatro che fu l’autentico tempio della più accorsata prosa di giro italiana.

                                                                                                                                           Enrico Fiore

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