FIRENZE – «Una fiaba per adulti». Questo il sottotitolo di «Infanzia felice», il testo di Antonella Questa che l’Associazione Culturale LaQ e Pupi e Fresedde hanno presentato al Teatro di Rifredi per la regia e l’interpretazione dell’autrice. E non poteva darsi sottotitolo più preciso ed esaustivo: perché, se l’attacco («C’era una volta, tanto tempo fa, in un paese lontano lontano…») è quello classico dei racconti di fantasia destinati ai bambini, ben presto ci accorgiamo, da spettatori non più bambini, che il paese in questione è, al contrario, vicino vicino, e che in esso, purtroppo, alla fantasia è subentrata una realtà assai meno consolante.
Infatti, il testo parte da «Pedagogia nera», un libro della sociologa e scienziata dell’educazione Katharina Rutschky pubblicato a Berlino nel 1977 e in cui sono raccolti saggi e manuali (vanno dalla fine del Milleseicento ai primi anni del secolo scorso) che vertono sulle pratiche, perverse e in certi casi addirittura diaboliche, intese a trasformare i bambini in adulti obbedienti attraverso la repressione delle loro emozioni, e adottando per raggiungere lo scopo – a prescindere dall’autoritarismo esercitato in famiglia e a scuola – ogni forma di violenza fisica e psicologica.
Non sorprende, perciò, che il personaggio principale – la maestra Rossana Caramella, «acida e rabbiosa» in conseguenza di un’infanzia infelice – si presenti dichiarando tranquillamente che, di fronte agli schiaffi presi a ripetizione in casa e in classe, concepì questo fermissimo proposito: «Da grande farò la maestra, avranno tutti paura di me e mi rispetteranno!». E per proporre un altro esempio di una simile e oltremodo allusiva icasticità, che costituisce uno dei pregi maggiori del testo di Antonella Questa, ecco come la maestra Caramella, affidando a una sola battuta il diagramma della sua preclusione ideologica circa gli islamici, si rivolge a Tarek Hammam, sette anni e mezzo, tunisino, che ha fatto cadere con uno sgambetto: «Non si corre in classe. E tirati su! Non è l’ora della tua religione».
Ma siamo, appunto, in una favola. E così il gatto parlante Paco racconta a Rossana che – quando «i bambini cattivi non esistevano» e «gli adulti erano sereni, pazienti, amorevoli» – un papà, dovendo portar via dai giardinetti il figlio di tre anni prima che lui volesse, gli diede un sassolino bianco da mettere a casa, sulla mensola dell’ingresso, per non dimenticarsi di recuperare in uno dei giorni seguenti il tempo dei giochi perduto. E un sassolino bianco Rossana trova al posto di Paco, che al termine di quel racconto è sparito. E afferratolo, prova un calore che dalla mano scende nel braccio ed entra nel corpo, dopodiché viene invasa da una calma profonda.
Accade, quindi, che Rossana – stringendo forte forte i pugni in tasca per poi sferrarli in faccia alla preside alcoolizzata che l’ha licenziata – si ritrova in una mano quel sassolino e, con esso, ritrova il calore e la calma profonda. Sicché, quando riapre gli occhi che aveva chiuso per la rabbia, guarda la preside, ma vede «una bambina, una bambina aggrappata a una bottiglia che cerca di galleggiare in un mare di merda». E se ne va senza dir nulla. E quando le monta la rabbia di fronte al padre che rispetto ai fratelli l’ha sempre discriminata, di nuovo s’infila la mano in tasca a cercare il sassolino e di nuovo succede: riapre gli occhi, guarda «quel vecchio curvo e malato», ma ci vede solo «un bambino cresciuto in collegio, con un padre militare affezionato alla frusta e una madre sottomessa e anaffettiva».
Quel sassolino bianco è, in definitiva, un talismano, e – fuor della fiaba – il viatico per la presa di coscienza della maestra Caramella, ormai affrancatasi dal risentimento verso il mondo che prima la incatenava. Ora, infatti, può dire al padre, senza esitazioni: «Sai, papà, i bambini cattivi non esistono, lo diventano. Se prima di picchiarmi e punirmi mi avessi chiesto “perché lo hai fatto?”, l’avresti saputo».
Ma un ulteriore pregio viene, poi, a distinguere il testo di Antonella Questa. È quello costituito dall’ironia, tanto lieve quanto pungente, che lo attraversa dall’inizio alla fine. E propongo al riguardo l’esempio delle osservazioni che la narratrice dispiega, a proposito delle loro guerre con gl’insegnanti, circa quei genitori che fanno l’impossibile perché i figli siano perfetti: costruiscono un dialogo con loro fin dalla culla: «Cambiamo il pannolino? Mangiamo la pappa? Andiamo dalla nonna?»; non gli fanno mancare nulla: merendine, playstation, corsi di inglese dal primo anno di età; vegliano ventiquattr’ore su ventiquattro sulla loro salute e sicurezza: «Attento! il sacchetto di patatine non si apre così, faccio io, tu lo fai esplodere, ti finiscono nell’occhio, prendi il tetano e muori. No! Attento! le scarpe non si allacciano così, lo fa la mamma, tu non sei capace! Poi inciampi, perdi l’equilibrio, ti spacchi la testa, prendi il tetano e muori. No! No! la cartella è troppo pesante, la porta papà, tu non ce la fai, barcolli, perdi l’equilibrio, riprendi il tetano e muori!».
Lo spettacolo finisce con la canzone di Sergio Endrigo «Ci vuole un fiore» e con la maestra che va alla lavagna, tira fuori dalla tasca un gessetto e mette una croce sulla parola «CATTIVI». E perfettamente in linea con tutto questo si rivela la prova d’attrice di Antonella Questa. Interpreta, è ovvio, tutti i personaggi evocati dal racconto, e le bastano un’inflessione vocale o un gesto (poniamo, il tremito delle mani del padre, affetto dal morbo di Parkinson) per materializzarli. Ma la cosa più importante, sul piano della comunicazione, consiste – firmano le coreografie e la messa in scena Magali B e Cie Madeleine&Alfred – nei movimenti che fa intorno e sopra la cattedra, che qui assume la forma di un trono a significare la sua trasformazione da strumento interattivo a simbolo di un potere chiuso in sé.
Quella di Antonella è una vera e propria danza, sicché diventa un’efficacissima sottolineatura per contrasto delle parole inquietanti che l’attrice va pronunciando. E insomma, «Infanzia felice» costituisce – per parafrasare il titolo del libro della Rutschky – un esempio convincente di pedagogia bianca.
Enrico Fiore