Una Madonna vendicatrice sulle orme di Clint Eastwood

Oscar De Summa in un momento de «La sorella di Gesucristo», in scena alla Sala Assoli (le foto che illustrano questo articolo sono di Lucia Baldini)

Oscar De Summa in un momento de «La sorella di Gesucristo», in scena alla Sala Assoli
(le foto che illustrano questo articolo sono di Lucia Baldini)

NAPOLI – «La determinazione è il dio di Maria, la creatività il suo braccio destro». Il nucleo narrativo, le forme e l’approdo «ideologico» de «La sorella di Gesucristo» – l’atto unico di Oscar De Summa che La Corte Ospitale presenta ancora oggi nella Sala Assoli – stanno tutti nell’estrema sintesi di questo ritratto del personaggio protagonista.
Siamo ad Erchie, un paese della provincia di Brindisi. E Maria Calandra, la sorella di Simone, detto Gesucristo perché da qualche anno, durante la Passione vivente, interpreta la parte del Figlio di Dio, ha deciso di vendicarsi, ammazzandolo, di Santo Pingone, il titolare di un mobilificio che l’ha violentata. Ma va ad ammazzarlo – percorrendo inesorabile tutto il paese, tra i paesani impauriti o soltanto incuriositi, come in una Via Crucis senza la croce – stringendo nel pugno il calcio della pistola Smith & Wesson 9 mm regalo di uno zio d’America e da tempo immemorabile dimenticata nella credenza della cucina.
In breve, quella pistola e quello zio sono l’annuncio dell’aura mitica che a poco a poco viene ad avvolgere l’argomento minimo e circoscritto – un delitto d’onore dal vago sapore femminista – proposto dal plot. Così, nel momento in cui Maria esce di casa per andare a compiere la sua vendetta, c’è tutto un discorso sulla nonna persa tra pentole e tegami «a ribollire, ripassare, saltare, soffriggere e mantecare, rosolare, scottare e dorare» una «miriade di ortaggi e legumi e frutti e frumento e farine», con l’accompagnamento di galline che schiamazzano, di oche che starnazzano, di gatti che soffiano e di cani che abbaiano. Ma poi si parla di Villa dei Crisantemi, di via dei Martiri e della zona del Monte del Diavolo. E del paesaggio che circonda la sorella di Gesucristo si dice che «è un Getsemani del Salento».
Allo stesso modo, si osserva che Maria cammina «spedita, come sulle acque», mentre gli altri personaggi hanno cognomi o soprannomi quali Terremoto o Sclerotico. E non a caso, del resto, la commistione fra il concettualismo dell’impianto drammaturgico e il minimalismo della trama si traduce nello scarto, all’interno della dimensione mitica, fra gli echi d’ordine religioso e i rimandi a un ben più modesto immaginario collettivo di estrazione cinematografica, che parte (giusta la Smith & Wesson) da Clint Eastwood per arrivare a quel Rosario Tremulaterra, presidente del circolo della caccia, che è «praticamente la fotocopia meridionale di Clark Gable».
L’esempio più eclatante di tale scarto consiste nell’incontro fra Maria, che ha la fissità iconica di una Madonna uscita da un Mistero medievale, e Mauro Terremoto, primo proprietario, nel paese, di una Harley Davidson e «simbolicamente a capo della tribù degli Apache, tutti coetanei e tutti possessori di Harley Davidson, come se un pezzo di America, quella dei film, e nello specifico quella dei film americani di natura beat, si fosse trasferita ad Erchie, questo piccolo paese del Sud».

Oscar De Summa in un altro momento dello spettacolo, presentato da La Corte Ospitale

Oscar De Summa in un altro momento dello spettacolo, presentato da La Corte Ospitale

Il commento all’incontro è il seguente: «Ti immaginavi che da un momento all’altro venisse fuori Dennis Hopper a chiederti: do you want e joint babi?». E l’esempio, s’intende, serve anche a dire dell’ironia straniante che, non ultimo dei suoi meriti, attraversa impagabilmente il testo di De Summa. Ma poi, e ancora non a caso, è proprio Mauro Terremoto che rilancia la situazione verso l’alto, ossia verso il cielo dell’allegoria e della metafora: quando confessa a Maria: «sai / da quando ti conosco / sei la misura del mondo / come una mano di Dio / che si appoggia sulla mia testa / e mi benedice nonostante tutto / nonostante tutto / un balsamo che lenisce / messo sopra l’infezione degli occhi / mentre lancio la mia rete di sguardi / sul mondo / su questo mondo che non mi piace / oh no / non mi piace per niente».
D’altronde, nel corso del suo incedere, Maria fa lo stesso effetto pure a molti altri: a Sara, la figlia dell’elettricista «con la sua chioma bionda», a Patrizia Cavallo «con i suoi short stretti e le labbra rosse come due ciliegie», ad Antonella Solimeo «con i suoi ricci tarantati»… e infine addirittura a Rosa, la madre di Santo Pingone, la madre «che è tutte le madri»: prima vorrebbe che la ragazza desistesse dal suo proposito e poi «guarda se stessa da fuori, guarda Maria, la vede, la guarda e la vede, le vede la maglia sporca, strappata da un lato, sformata sul collo, con una macchia di sangue sotto il braccio, una macchia di sperma a destra dell’ombelico, i pantaloni sporchi di terra, gli occhi da pazza, umiliata, vede tutto questo, vede, vede, vede, capisce, si ferma, si accascia, smette la giaculatoria, smette l’umiliazione, smette e sceglie, inconsapevole, non sa tra cosa e cosa, non riesce veramente a capirlo, ma fermandosi, non proseguendo, fermandosi, ha scelto di essere donna».
In definitiva, siamo di fronte a un percorso sapienziale. Che, però, si trasforma in una discesa agl’inferi, come dimostra l’amarissima presa di coscienza comunicata, nell’ultima scena, proprio da Salvo Pingone, un attimo prima che Maria gli spari: «La storia dell’uomo che tanto studiamo è la storia dei suoi atti di violenza; la storia degli dei che ci impongono di adorare è la storia dei loro atti di violenza su di noi. Il mondo non è come lo vediamo. Maria, il mondo non è come lo vediamo. Lo capisci? Certo che lo capisci, la violenza è sacra, e tu dirai questo ragazzo è pazzo eppure tu stai per fare quello che io ho fatto a te, stai per capire. Non lo vedi? Sei qui, con una pistola in mano, puntata sulla mia faccia, e sei pronta! Sei pronta per capire, sei qui per capire, per la grande rivelazione: su, avanti! Fai quello che devi fare! Su, spara… spara…».
Funzionalissima, rispetto a un testo del genere, risulta infine la colonna sonora, che allinea «Sweet dreams» degli Eurythmics, «Personal Jesus» dei Depeche Mode, «Money for nothing» dei Dire Straits e «In the name of love» degli U2. E non meno efficaci sono i disegni di Massimo Pastore proiettati sul fondale. Mentre davvero non occorrono troppe parole per sottolineare la bravura di Oscar De Summa in quanto interprete: agendo dietro due microfoni, e servendosi di una pedaliera multieffetti, dona al concertato di voci che accompagna la camminata di Maria un tono nello stesso tempo partecipe e parodistico, con l’ulteriore straniamento garantito dalla citazione di passi de «L’arte della guerra» di Sun Tzu. E insomma, anche con questo spettacolo De Summa si conferma tra i personaggi più interessanti (sono sempre meno) dell’attuale teatro italiano votato all’impegno civile oltre che intellettuale.

                                                                                                                                          Enrico Fiore

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