Addio a Bobò, l’innocenza che si fece teatro

Bobò in un momento de «La gioia» (foto di Luca Del Pia)

Bobò in un momento de «La gioia» (foto di Luca Del Pia)

Alle 10,28 di sabato scorso Debora Pietrobono, addetto stampa di Emilia Romagna Teatro, mi ha trasmesso questo ricordo di Bobò, che pubblico integralmente. Non c’è bisogno di
aggiungere altro.

«L’attore è un uccello che con un’ala sfiora la terra, mentre l’altra si staglia nel cielo…»

«È difficile, talvolta, trovare le parole giuste per raccontare con la necessaria semplicità e la dovuta profondità ciò che ci accade intorno. È difficile eppure si deve.
È difficile, anche, davanti a certi passaggi della vita, trovare l’esatto equilibrio tra il bisogno e il desiderio della condivisione e la volontà del riserbo. È difficile, eppure si deve.
Ieri pomeriggio, ci ha salutati, in punta di piedi, Bobò. Forse chiamarlo per nome è l’unico modo per tentare di riassumere questo imprendibile funambolo della vita e della scena. Per tanti aspetti un’icona del teatro a cavallo tra due millenni, che ha saputo incantare, con la sua levità, la sua siderale distanza e la sua bruciante presenza, le platee del mondo intero – da Parigi, all’India, da San Pietroburgo alla Spagna e alla Francia, passando per tantissimi palcoscenici del nostro Paese.
Una storia di oscurità e di luce, la sua. Entrato nel manicomio di Aversa a sedici anni, proprio lì incontra Pippo Delbono in occasione di un laboratorio teatrale tenuto dallo stesso Delbono. Ed è lì che nasce un sodalizio profondo e tenace che va al di là del linguaggio e di quella strana finzione che siamo soliti chiamare ragione. Bobò e Pippo. Pippo e Bobò.
Entrato in compagnia, dal 1995 Bobò non ha mai smesso di accompagnare Pippo e la sua famiglia teatrale, nelle rigorose e impervie e giocose e amarissime scorribande tra vita e teatro, alla ricerca di una sincerità assoluta nel vortice delle maschere, che Pippo, prendendo per mano Bobò, ha saputo da allora danzare.
Da quel momento in poi, la sua vita sono dodici spettacoli, dodici continenti che spaziano per ogni dove, dodici stelle che accompagnano e accompagneranno il nostro cammino, dodici stazioni di una umanissima e lancinante “commedia” dalla rabbia alla gioia: “Barboni” (1997), “Guerra” (1998), “Esodo” (2000), “Il silenzio” (2000), “Gente di plastica” (2002), “Urlo” (2004), “Questo buio feroce” (2006), “La menzogna” (2008), “Dopo la battaglia” (2011), “Orchidee” (2013), “Vangelo” (2015), “La gioia” (2018); e le opere liriche: “Cavalleria rusticana” (2012), “Don “Giovanni” (2014), “Madama Butterfly” (2014), “Pagliacci” (2018); e “Il sangue”, concerto sull’Edipo di Sofocle (2013); e i molti film con la regia di Delbono.
Emilia Romagna Teatro Fondazione tutta si stringe a Pippo, alla compagnia e alla famiglia nella gratitudine e nell’affetto per questo amico prezioso. Insieme a tutti coloro che lo hanno amato e continueranno per sempre ad amarlo, ci piace ricordarlo così: un saggio bambino ottantaduenne circondato da un tripudio di fiori, capace di vedere, dalla sua panchina/osservatorio, sulla scena della “Gioia”, ben al di là delle apparenze…
Ciao, Bobò, e grazie di tutto».

                                                                                              Emilia Romagna Teatro Fondazione

Per la cronaca Bobò, all’anagrafe Vincenzo Cannavacciuolo, microcefalo sordomuto, era nato nel 1936 a Villa di Briano, in provincia di Caserta. È morto a 82 anni per arresto cardiaco dovuto alle complicanze di una broncopolmonite.
L’ho visto in scena per l’ultima volta nel novembre dell’anno scorso allo Storchi di Modena, nello spettacolo di Pippo Delbono, «La gioia», prodotto appunto da Emilia Romagna Teatro. E in quell’occasione, ancora una volta mi parve che Bobò fosse l’icona lancinante non solo della poetica di Delbono ma anche, in generale, del teatro complessivo degli ultimi decenni.
Parlando di lui, a un certo punto Pippo disse: «Dopo Bobò c’è sempre un vuoto». Ed io, scrivendo di quello spettacolo, aggiunsi fra l’altro che c’era sempre un vuoto perché Bobò era un tutto che inglobava tutte le forme possibili e, perciò, tutte le neutralizzava. Non aveva passato e non aveva futuro. Aveva solo un presente che coincideva solo con se stesso. E per questo lui, in una delle sequenze più intense e significanti de «La gioia», poté spegnere sulla torta candeline a ripetizione: per Bobò si trattava di festeggiare un compleanno interminabile, che cadeva in ogni momento di ogni giorno della sua vita.
Ecco, tutto qui. Nel nostro cuore e nel nostro ricordo quelle candeline Bobò continuerà a spegnerle. Per sempre.

                                                                                                                                          Enrico Fiore

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