Margherita/Mara, dal sogno alla tragedia delle Brigate Rosse

Francesca Porrini e Andrea Castelli in un momento di «Avevo un bel pallone rosso», in scena al Piccolo Bellini (le foto che illustrano l'articolo sono di Luca Del Pia)

Francesca Porrini e Andrea Castelli in un momento di «Avevo un bel pallone rosso», in scena al Piccolo Bellini
(le foto che illustrano l’articolo sono di Luca Del Pia)

NAPOLI – «Avevo un bel pallone rosso» – il testo di Angela Demattè proposto al Piccolo Bellini in un allestimento di LuganoInScena diretto da Carmelo Rifici – non è tanto la storia di Margherita Cagol, quanto l’analisi del processo che da Margherita, una ragazza trentina qualsiasi, conduce a Mara, fondatrice, insieme col marito Renato Curcio, delle Brigate Rosse. Ed è, soprattutto, la traduzione di un sogno esaltante che si volge in tragedia, quello suggerito dalla filastrocca che fornisce il titolo e che Margherita annotava nei suoi quaderni d’infanzia: «Avevo un bel pallone rosso e blu, / ch’era la gioia e la delizia mia. / S’è rotto il filo e m’è scappato via, / in alto, in alto, su sempre più su. / Son fortunati in cielo i bimbi buoni, / volan tutti lassù quei bei palloni».
Il bel pallone era la scelta di «combattere – dice Margherita – non per trovare un posto in questa società, ma per creare una società dove valga la pena di trovare un posto»; la rottura del filo fu il passaggio al terrorismo, che non è mai stato un metodo di lotta ammesso dal movimento rivoluzionario; la fuga del bel pallone consisté nella morte di Mara durante uno scontro a fuoco con i carabinieri; e la fortuna dei bimbi buoni che ritrovano i bei palloni in cielo allude alla distanza che sempre, in materia di rivoluzione, si determina fra la teoria e la pratica, fra l’utopia e la realtà.
Penso, in proposito, a «L’anima buona del Sezuan», il dramma di Brecht che di recente ho rivisto in scena allo Storchi di Modena in un allestimento firmato da Elena Bucci e Marco Sgrosso. Nell’epilogo si parla di una «leggenda d’oro» che «strada facendo, in male s’è cambiata», lasciando, «a sipario caduto», ogni problema «insoluto». E qui, difatti, ha ragione Margherita, quando dichiara: «M’è sempre vegnù la nausea a pensar a ‘na vita normale. Sposarse, g’aver dei fiòi, comprarse ‘na casa, ‘na machina, la vilegiatura d’istà. E dopo?…Mi no me basta ‘sta roba qua»; ma non ha ragione la Mara che considera la lotta armata come «l’unica soluzione» dei problemi posti dalla malattia e dall’ingiustizia della società capitalistica.
Ancora, ha ragione Margherita, quando, trasferitasi con Curcio a Milano, osserva che quella città le appare «sempre più come un mostro feroce che divora tutto ciò che di naturale, di umano e di essenziale c’è nella vita»; ma non ha ragione la Mara che scrive in un comunicato: «Un nucleo armato delle Brigate Rosse ha arrestato e rinchiuso in un carcere del popolo il famigerato Mario Sossi, sostituto procuratore della Repubblica. Mario Sossi era la pedina fondamentale della controrivoluzione, un persecutore fanatico della classe operaia, del movimento degli studenti, delle organizzazioni della sinistra rivoluzionaria. Mario Sossi verrà processato da un tribunale rivoluzionario. Compagni, entriamo in una fase nuova della guerra di classe, fase in cui il compito principale delle forze rivoluzionarie è quello di rompere l’accerchiamento delle lotte operaie estendendo la resistenza e l’iniziativa armata ai centri vitali dello Stato».

Un altro momento dello spettacolo, su testo di Angela Demattè e per la regia di Carmelo Rifici

Un altro momento dello spettacolo, su testo di Angela Demattè e per la regia di Carmelo Rifici

Ho fatto, l’avrete capito, delle citazioni che illustrano quello ch’è il pregio decisivo del testo della Demattè: il passaggio continuo dal dialetto trentino all’italiano come corrispettivo, appunto, del passaggio progressivo dalla ragazza trentina qualsiasi che si chiamava semplicemente Margherita alla donna, imbevuta di un preciso e ferreo ideologismo, che assunse il nome di battaglia di Mara. Un passaggio che si fonde perfettamente con il non meno significante trascorrere dal sentire spontaneo all’adozione di slogan («Mordi e fuggi! Niente resterà impunito! Colpiscine uno per educarne cento! Tutto il potere al popolo armato!») obbligati.
Tutto questo, per venire in concreto al plot, assume la forma di dialoghi fra Margherita/Mara e il padre, tradizionalista e cattolico quanto basta. Ma si tratta di dialoghi che configurano un’allegoria, perché in effetti qui si scontrano, più che due persone, una mentalità e un’idea, cioè una stasi e un movimento: con il risultato, poniamo, che la pigra convinzione del padre («en de la vita bisòn tegnir la testa en de quel che se fa») viene battuta in breccia da un aforisma di Margherita che più icastico e definitivo non potrebbe risultare: «Non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza».
Ovviamente, il bel testo di Angela Demattè affronta anche il problema dell’incomunicabilità, che con grande efficacia divampa sempre più evidente e doloroso a mano a mano che s’indebolisce la presa degli affetti famigliari sul rapporto fra quel padre e quella figlia. E assai probante, sul piano simbolico, si rivela al riguardo il fatto che il padre informi la figlia di avere un cancro alla bocca poco prima che il sogno voltosi in tragedia di Margherita/Mara finisca, il 5 giugno 1975, presso la cascina Spiotta d’Arzello in cui le Brigate Rosse avevano nascosto l’industriale Vittorio Vallarino Gancia, sequestrato il giorno precedente.
Ormai non c’è più alcuna parola possibile, fra il padre e la Margherita diventata Mara. E il percorso verso quest’approdo Carmelo Rifici lo illustra per mezzo di una regia, tanto rigorosa quanto lieve, che da un lato punta sulle immagini e dall’altro sulla strategia dei gesti adottati dagl’interpreti.
A sinistra scorrono sullo schermo di un vecchio televisore i filmati d’epoca con assemblee, cortei, scontri con la polizia (dunque, il documento, ciò ch’è stato e perciò è fisso, dato per sempre) e a destra si manifestano sul fondale gli ectoplasmi di volti e figure sfocati (dunque, il divenire, ciò che deve ancora essere e perciò è mobile, in cerca d’identità). Non si poteva rendere in maniera più precisa e intelligente lo scarto fra una dimensione collettiva risaputa e una vicenda individuale da indagare. E con quelle immagini coincidono, rispettivamente, gesti del padre sempre definiti e sicuri (la conferma visiva di pensieri formati) e gesti della figlia sempre vaghi e convulsi (la proiezione visiva di pensieri da formare).
Inutile dire, a questo punto, dell’aderenza ai loro personaggi, un’aderenza persino spasmodica, da parte di Francesca Porrini e Andrea Castelli, bravi fino ad essere commoventi. Piuttosto, occorre aggiungere che il merito principale di «Avevo un bel pallone rosso» sta nel fatto ch’è stato riallestito, a sette anni dal debutto, in ossequio al cinquantenario del Sessantotto. Perché, naturalmente, dobbiamo ricordare che non bisogna mai buttare, insieme con l’acqua sporca, anche il famoso bambino.
Dice il padre alla figlia: «Ve sé seradi dentro en bel castel de teorie dove che no se pòl sentir nesuna insodisfazion, nesun dubbio, nesuna malinconia». E la figlia dice al padre: «Ma in questo momento non possiamo essere contenti e felici, perché dobbiamo lottare per un mondo dove tutti possano essere felici…». Si sente l’eco del passo più bello e importante di «Qualcuno era comunista» di Giorgio Gaber: «Qualcuno era comunista perché pensava di poter essere vivo e felice solo se lo erano anche gli altri».

                                                                                                                                            Enrico Fiore

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